Mario Ajello per il Messaggero
salvini giorgetti
Siamo quasi al se c'è un altro più bravo di me si faccia avanti. Insomma Salvini è stanco degli smarcamenti di Giorgetti. Non è un tipo che conosce l'ira, ma è deluso rispetto a tanti amici che dubitano e barcollano, dando l'immagine di un partito diviso.
«Noi siamo uniti ma da fuori ci vogliono dividere», è la posizione del leader ma anche lui capisce che stavolta i distinguo sulla sua linea, a proposito del viaggio a Mosca, sono tanti e vedono in Giorgetti e in Zaia - i superbig del partito, affezionati a stabilità governativa e concretezza politica - due interpreti di questa distinzione rispetto a come si sta muovendo - «sconclusionatamente», dicono un po' tutti nella Lega - il segretario.
Il ministro Giorgetti, draghiano doc, dopo aver sottolineato riguardo alla missione in Russia che «bisogna muoversi di concerto col governo», ieri ha negato l'esistenza di dissidi interni al partito. Però ha aggiunto: «Saranno gli elettori a decidere se siamo bravi».
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Ovvero: «La situazione del mio partito è quella che decideranno gli elettori. Abbiamo le nostre idee, facciamo le cose assumendocene le responsabilità e poi in democrazia sono gli elettori che decidono se siamo bravi o no. Ovviamente noi pensiamo di essere i più bravi del mondo, ma sono appunto gli elettori che decidono». Traduzione: se le Comunali del 12 giugno, praticamente adesso, dovessero andare male verrà meno un cardine del leghismo di questi anni: quello dell'intoccabilità di Salvini. finora l'effetto della crescita dal 4 per cento al 30 delle Europee, che ha funzionato come clausola di salvaguardia del segretario, ha blindato Matteo, ma adesso sembra non bastare più questo scudo.
Anche perché, si fa notare anche tra i fedelissimi del leader, l'isolamento - vuoi per la cattiveria degli avversari e vuoi per gli errori del capo - si sta facendo totale. E non c'è leadership che possa reggere senza avere interlocutori politici. Il gelo con cui Draghi ha commentato l'affaire viaggio in Russia, anche se il premier non ha voluto troppo calcare la mano ma è come se lo avesse fatto anche perché «Draghi ne ha piene le scatole» dei partiti che fanno le bizze (copyright Giorgetti), non poteva non essere notato sul Carroccio e con notevole preoccupazione.
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«Salvini a Mosca? La nostra posizione non cambia, è europeista e atlantista», ha detto il premier. E poi la staffilata: «Al Copasir ho detto, a proposito di eventuali relazioni internazionali di esponenti della maggioranza di governo, che vanno bene. Ma l'importante è che siano rapporti trasparenti».
Una legnata. Sottile ma potente.
Che però non ferma il putinismo salviniano. Matteo, mentre il suo consulente Capuano sta per finire davanti al Copasir, scrive: «Bene, le armi più potenti sono dialogo e diplomazia, l'impegno per la pace vale più di qualsiasi critica».
E lo scrive postando un articolo del Corriere della Sera dal titolo: «Mosca: partita dal porto di Mariupol la prima nave merci».
Quando l'ultima di Salvini arriva alle orecchie, e nei video, di Palazzo Chigi, provoca sconcerto. Nella Lega c'è chi dice: «Ma è uscito di senno?». E il Pd naturalmente ci va a nozze. Filippo Sensi: «Non avevo ancora visto il leader di una forza di governo esaltare la razzia russa, dopo il martirio a Mariupol. Ci siamo arrivati. Qui non si tratta solo di una verifica di maggioranza, qui si tratta di un danno alla postura internazionale dell'Italia. Sulla pelle dell'Ucraina».
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Perfino in Forza Italia le prese di distanza dal segretario leghista si sprecano. Quando parla Tajani è come se parlasse Berlusconi - il quale riservatamente comunque tende a dire che si sta esagerando contro Matteo - il numero due di Forza Italia osserva: «Salvini? Le iniziative in politica internazionale vanno concordate con il governo». La linea azzurra, almeno ufficialmente («Siamo sicuri che nel rapporto Salvini-Capuano non c'entri il Cavaliere?», insinua Mario Borghezio che conosce la Lega e il centrodestra da sempre), è la linea Draghi e non la linea Matteo. Il quale, come ha fatto intendere Giorgetti, è atteso al varco.
Nel Sud per il Carroccio andrà male il 12 giugno, ma se alle Comunali al Nord - occhio ad Alessandria, Cuneo, Como, Verona, Padova - la Meloni batte la Lega, il famoso partito leninista-padanista chiederà tremendamente il conto al segretario. Per non parlare del flop assicurato del referendum sulla giustizia su cui Salvini ha investito troppo.
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