Leonardo Di Paco per “La Stampa”
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Vietato stare in bagno per più di cinque minuti. Per dominare il mondo dell'e-commerce bisogna correre, arrivare prima degli altri, ridurre a zero qualsiasi tipo di latenza o spreco di tempo. Ogni movimento, che si tratti di merci o dipendenti, deve essere monitorato e scandito al secondo. O almeno così sembra.
Centro di smistamento e immagazzinamento merce di Amazon a Torrazza Piemonte, nel torinese. Qui lavorano circa 1.500 persone. Se una di queste va in bagno l'azienda - che ha spiegato il meccanismo di fronte all'Ispettorato del lavoro - sa che si allontanerà dalla sua posizione per non più di 5 minuti: «il tempo di percorrenza, andata e ritorno dai servizi igienici, è stimato in due minuti se si utilizza il bagno più vicino e quattro minuti se si utilizza quello meno vicino».
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Ma cosa succede se una lavoratrice si trattiene in bagno per 10 minuti? Per scoprirlo bisogna ripercorrere la storia della dipendente sospesa per un giorno per violazione «dei dettami del Ccnl e delle norme in materia di sicurezza e lavoro».
Così è stato scritto nella contestazione disciplinare ad un'addetta alla spedizione dei pacchi del sito torinese. «Colpevole» di essersi allontanata per andare in bagno durante il turno notturno «senza preavviso o autorizzazione dei superiori» e di non aver saputo fornire «elementi utili ad avvalorare un lasso di assenza prolungata se non l'essersi fermata a parlare con una collega dopo averla incrociata nella zona del lavaggio mani».
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Una sanzione ritenuta «sproporzionata e illegittima» dall'Ispettorato del lavoro di Torino, che ha annullato la decisione di Amazon.
Anche perché durante il procedimento di conciliazione è stata la stessa società a ridimensionare ciò che era stato contestato alla lavoratrice in un primo momento. Ancora i documenti ufficiali: «L'azienda ha chiarito che non sono previsti tempi massimi per l'espletamento delle funzioni fisiologiche, ma è richiesto alla lavoratore di informare i responsabili d'area prima di allontanarsi».
Comunicazione che non sarebbe avvenuta. Una mancanza che sempre secondo l'Ispettorato non giustifica gli addebiti alla lavoratrice, accusata anche di essere «recidiva» a causa di precedenti episodi simili.
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«Siamo determinati ad andare avanti nella difesa dei diritti e nel far riconoscere ai lavoratori la corretta applicazione delle norme sul lavoro, del contratto nazionale e sulla sicurezza negli ambienti di lavoro. Con la massima attenzione ai ritmi e ai carichi. Non è tollerabile che siano gli algoritmi a dettare i tempi» tuona il sindacalista della Filt Cgil, Luca Iacomino, il sindacato che ha seguito della vertenza della donna.
«Avremmo voluto raggiungere un accordo con l'azienda prima di rivolgerci all'Ispettorato, ma loro non sono arretrati di un millimetro: tutto ciò è inaccettabile» dicono ancora i sindacati.
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Netta la replica di Amazon che in un una nota spiega: «Pur rispettando la decisione del collegio arbitrale riteniamo tuttavia di dover dissentire rispetto a quanto riportato, ribadendo che Amazon non monitora le pause né tanto meno cronometra i propri dipendenti. Le condizioni di lavoro delle persone impiegate nei nostri magazzini non soltanto rispettano le previsioni del Ccnl ma vanno ben al di sopra degli standard di settore».
La sicurezza sul luogo di lavoro - prosegue l'azienda - «è una delle nostre prerogative e per questo motivo chiediamo a tutti di informare il proprio responsabile prima di allontanarsi dalla postazione di lavoro. È infatti da considerare che in questo sito impieghiamo oltre 1500 lavoratori e, per motivi di sicurezza, è essenziale che le persone seguano le procedure. Non farlo potrebbe avere conseguenze significative, soprattutto in caso di emergenza o evacuazione».