boris johnson volodymyr zelensky a kiev
Gian Micalessin per “il Giornale”
«Noi non gli piacciamo molto, ma nemmeno lui piace molto a noi». Le parole con cui il portavoce del Cremlino Dmitri Peskov commenta la metamorfosi di Boris Johnson trasformatosi da portabandiera dell'«atlantismo» in «anatra zoppa» di Downing Street la dice lunga sul ruolo di BoJo nel conflitto ucraino. E sulle conseguenze che il suo ridimensionamento può avere per Kiev e Volodymyr Zelensky.
BORIS JOHNSON VLADIMIR PUTIN
Perché se Boris non avesse dato carta bianca alla propria «intelligence» e alle proprie «forze speciali», Zelensky non sarebbe certo sopravvissuto al «pronunciamento» dei generali ucraini che il 24 febbraio scorso doveva garantire - nelle previsioni (sbagliate) dell'Fsb - l'instaurazione di un governo filo russo. E se non fosse stato per Boris il presidente ucraino avrebbe probabilmente dato ascolto a chi da Washington suggeriva di portarlo via dalla capitale.
Grazie all'insistenza di un BoJo convinto di essere un novello Churchill, il presidente-comico non solo respinse le profferte Usa restando al proprio posto, ma si trasformò in un leader-guerriero capace di galvanizzare i propri combattenti. Non a caso, ieri, uno dei primi a farsi sentire è stato proprio Zelensky ricordando l'amico e l'alleato dei «momenti più difficili».
BORIS JOHNSON E ZELENSKY A KIEV
Un alleato impareggiabile nel pretendere non solo dall'Europa, ma anche dalla Casa Bianca, un atteggiamento inflessibile nei confronti di Mosca. Ed infatti, in questi mesi, è stato proprio il furore anti-russo di Johnson a trasformare la Nato in un alleanza bicefala dominata da una parte dalle strategie degli 007 britannici e, dall'altra, dalle forniture militari per oltre 5 miliardi e 300 milioni di dollari garantite dalla Casa Bianca. Ora però Zelensky e i suoi si chiedono se tutto ciò sopravvivrà non solo a BoJo, ma anche ai «mal di pancia» di Joe Biden e degli alleati europei alle prese con gli effetti boomerang delle sanzioni.
mario draghi boris johnson cop26 glasgow
Più s' avvicinano le elezioni di «mid-term» di novembre e più le preoccupazioni dell'opinione pubblica Usa per il prezzo del carburante e il peso dell'inflazione promettono di trascinare il presidente americano lontano dal solco tracciato con Downing Street. E in Europa va anche peggio. Le trincee della fermezza disegnate durante il summit di Madrid potrebbero venir ben presto abbandonate. Anche perché se BoJo è un'«anatra zoppa» i suoi omologhi europei non sono né scattanti centometristi, né campioni di resistenza.
joe biden emmanuel macron boris johnson 2
Per capirlo bastano le agitate cronache dei loro parlamenti. Mario Draghi, presentatosi a Madrid come il più convinto sostenitore della linea anglo-americana, è costretto a vedersela con le resipiscenze di Conte e dei Cinque Stelle da una parte e con quelle della Lega dall'altra. Ma se Roma piange, Parigi non ride. Emmanuel Macron, un presidente già assai distante dalla linea della fermezza pretesa da Londra e Washington, fa i conti con la nuova dimensione dell'Assemblea Nazionale. Un'Assemblea in cui i banchi, assai affollati, dell'«Union Populaire» di Jean-Luc Mélenchon a sinistra e del «Rassemblement National» di Marine Le Pen a destra, minacciano di travolgere un «governo del presidente» privo di una maggioranza assoluta.
BORIS JOHNSON E ZELENSKY A KIEV
Tutti elementi che promettono di ammorbidire ancor di più la determinazione di Macron. Anche perché già a settembre dovrà vedersela con il malessere di una piazza francese dove l'eterna diffidenza nei confronti degli Usa unita al malcontento per crisi energetica ed inflazione minaccia d'innescare miscele esplosive.
A Berlino l'esitante cancelliere tedesco Olaf Scholz non ha davanti mesi migliori. Costretto a riaprire le centrali a carbone e quelle nucleari per fronteggiare il prevedibile blocco delle forniture di gas russo, il Cancelliere rischia di fare i conti con l'uscita dalla coalizione di governo dei Verdi del ministro degli esteri Annalena Baerbock.
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La caduta di Boris rischia insomma di essere soltanto il prologo di un ciclone capace di travolgere tutte le capitali europee e lasciare assai isolata l'Ucraina di Zelensky. Un Zelensky che, non a caso, vorrebbe chiudere la guerra prima di dicembre. Ma l'unico modo per farlo, come continua a ripetere il 99enne veterano della diplomazia Henry Kissinger, è aprire un tavolo negoziale con Mosca. Peccato che fin qui nessuno si sia premurato di ascoltarlo. Né a Kiev, né a Londra, né nel resto d'Europa.
ZELENSKY E BORIS JOHNSON A KIEV ZELENSKY E BORIS JOHNSON A KIEV BORIS JOHNSON E ZELENSKY A KIEV