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Se c’è un artista che ha creato quasi un culto intorno alla sua vita è Jean-Michel Basquiat.
Molti di noi hanno visto la sua ascesa artistica nel film di Julian Schnabel, dove a interpretarlo era Jeffrey Wright mentre David Bowie era nel ruolo di Andy Warhol. Ma è attraverso il libro “Widow Basquiat” di Jennifer Clement che avremo accesso alla sua intimità e alla sua quotidianità. L’autrice mette in pagina le memorie di Suzanne Mallouk, a lungo fidanzata con l’artista.
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Suzanne si trasferì dal Canada a New York City il giorno di San Valentino del 1980. Di lì a poco incontrò Basquiat, che divenne in seguito enfant terrible della scena artistica. Lei gli fece da musa, madre, amante, e guadagnò il soprannome di “vedova Basquiat” anni prima che lui morisse di overdose (1988). Il libro segue la strada di quel genio attraverso gli occhi della sua donna, fra insonnia, droghe, momenti di tenerezza ed eccessi.
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«Jean-Michel non leggeva mai. Prendeva libri di mitologia, storia, anatomia, fumetti e giornali, estraeva le parole che lo colpivano e le metteva su tela. Ascoltava la televisione. Ascoltava le parole e le scriveva sui disegni. Un giorno disse: “Sono quasi famoso e non so disegnare. Dovrei preoccuparmene?”. Poi uscì di casa e tornò con sette volumi su come disegnare cavalli, fiori, panorami. Li trovò divertenti e fece alcuni quadri copiando da quei libri».
Le liti nella coppia scoppiavano quando Suzanne gli chiedeva di trovarsi un lavoro, perché lei era l’unica a portare soldi a casa. Un giorno Basquiat decise di darsi da fare, prese un lavoro da elettricista nella casa di una ricca donna bianca. Suzanne gli preparò una cena speciale. Basquiat tornò a casa furioso: «Quella stronza bianca mi guardava come fossi un operaio!». Buttò la cena nella spazzatura e sniffò una striscia.
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«Jean non ha mai smesso di usare droghe. Ovunque si trovasse, in Europa come in Giappone, potevi star certo che in un paio d’ore avrebbe saputo dove comprare ciò che voleva. Aveva una specie di radar per questo. Una volta venne a prendermi in Canada, e dopo cinque minuti aveva già preso la moto di mio fratello per andarsi a comprare roba.
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L’altro grande interesse era per le donne. Amava le donne e amava il sesso. Mi è stato fedele solo i primi mesi che vivevamo insieme nel loft di Crosby. Aveva tante piccole relazioni. Si annoiava presto. Ecco perché avevo problemi a credere che io fossi speciale per lui. Me lo dicevano gli altri. Solo una volta Jean mi disse che le uniche donne che aveva davvero amato eravamo io e Jennifer Goode».
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«La musica era una sua priorità. Adorava il jazz, Max Roach, Charlie Parker, Miles Davis, etc. Quando si trasferì al loft di Great Jones sviluppò un amore per la musica classica. Credo glielo avesse passato Andy Warhol. A Jean piaceva comporre musica sperimentale. Fece anche un disco rap con K Rob e Rammellzee e realizzò la copertina. Ne stampò un migliaio di copie, ora introvabili. I suoi dipinti si ispiravano ai musicisti jazz e alle loro vite. Quando suonavano nei club o negli alberghi non potevano entrare dall’ingresso principale. Dovevano entrare dalle cucine. Credo che per Jean fosse la metafora di come si sentiva in un mondo artistico composto da bianchi: lui era entrato dal retro».
«Jean-Michel era fatto per la notte, era una specie di talpa. La luce, il sole, lo facevano stare male, ma la notte si trasformava in un mago, in un Merlino splendente. Le notti erano per le droghe, le droghe erano per le notti. Di giorno lui cercava la sua ombra e ci si infilava dentro».
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Una volta Suzanne disse: «No, no, non puoi entrare». Jean-Michel era sulla porta, trasandato, la barba incolta, le scarpe rotte da cui spuntava il pollice. Non si aspettava di essere di nuovo accolto. Come gli animali randagi, sapeva che non sarebbe stato ripreso indietro.
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Racconta Suzanne: «Ma io lo riprendevo sempre. Mi convincevo che non l’avrei fatto ma quando lo vedevo, con lo sguardo rassegnato di chi è abituato al rifiuto, come un ragazzo senza un amico, allora cedevo. Gli preparavo la cena e uscivo a comprare una buona bottiglia di vino rosso, anche se mi costava metà dell’affitto. Mi piaceva viziarlo e lui apprezzava le cose costose, come se consumarle lo rendesse prezioso.
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E’ successo tante volte, così tante che una sera ci trovammo seduti a cena come fossimo due estranei. Mi disse che stava facendo tonnellate di soldi con i suoi quadri e per la prima volta mi raccontò della sua infanzia, di quando sognava di diventare un disegnatore di fumetti. L’unica cosa che lo aveva sempre interessato, era la pagina bianca.
Aveva avuto diversi problemi da ragazzino, aveva cambiato varie scuole. I genitori avevano divorziato e lui era finito a vivere con suo padre in Puerto Rico. Era perduto senza la madre. Con lei passavano i pomeriggi a dipingere, insieme visitavano i musei. Il distacco da lei gli provocò una grande tristezza. La mattina successiva Jean se ne andò dicendomi addio. Poi tornò indietro per dirmelo di nuovo. Disse che ero la sua migliore amica. Fu triste, una di quelle cose che i bimbi dicono all’asilo».
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Basquiat aveva la cicatrice di una ferita da coltello sui glutei. Sua madre finì in manicomio e da quel momento il suo mondo ruotò intorno a lei.
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«Basquiat aveva odore di pelle, pittura ad olio, tabacco, marijuana e cocaina. Indossava maglioni di lana fatti a mano e lunghi ponchi messicani. Non camminava mai in linea retta. Ovunque andasse, lui zigzagava. Non riusciva mai a far fermare un taxi. Nemmeno quando vestiva con i completi Armani e in tasca aveva 5.000 dollari».
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Nel loft Jean-Michel passava ore a spazzolare i capelli di Suzanne. Dipingeva o disegnava, dava una botta di coca, poi incontrava ragazzi e ragazze del “Mudd Club” e spariva per giorni. Il suo interesse sessuale non era monocromatico. Non si basava sull’aspetto fisico. Era attratto dalle persone per i motivi più diversi. Potevano essere uomini, donne, magri, grassi, belli, brutti. Era l’intelligenza ad eccitarlo. L’intelligenza e il dolore. Restava affascinato da chi nascondeva sofferenza come lui e amava chi era unico, chi aveva una sua visione delle cose’’.
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