Rocco Moliterni per “La Stampa”
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«Io sono per un'arte che fa qualcosa di diverso dal sedersi sulle chiappe in un museo»: questo il manifesto programmatico di Claes Oldenburg, il grande vecchio della Pop Art americana, morto ieri nella sua casa di Manhattan a New York a 93 anni.
Oldenburg era nato in Svezia (il padre era un diplomatico), ma bambino si era trasferito a Chicago, prima di approdare nella New York che l'avrebbe visto diventare ben presto uno dei protagonisti della scena artistica. La New York a cavallo fra gli Anni 50 e 60 è una vera fucina di talenti, dove sta per esplodere il fenomeno della Pop Art, che sposterà per sempre il baricentro dell'arte contemporanea dall'Europa agli Stati Uniti.
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Sono anni caotici e felici, dove ogni sera c'è un posto in cui succede qualcosa, trionfano l'happening e la performance... E Oldenburg diventa amico di Alan Kaprow, che di quelle arti perfomative è una sorta di profeta. Il verbo della Pop Art prevede che si faccia arte con gli oggetti di uso comune, dalla scatola di zuppa, resa celebre da Andy Warhol, al tubetto di dentifricio di una celebre opera proprio di Oldenburg. Nel 1961 lui apre nella sua galleria The Store, per presentare oggetti di uso quotidiano in gesso. E tra i suoi soggetti preferiti c'è il cibo, elemento cardine della nostra esistenza.
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Nel 1964 esporrà anche lui con un drappello di artisti della Pop Art alla Biennale di Venezia, in quell'edizione che grazie al Leone d'oro a Rauschenberg segnerà il definitivo affermarsi della nuova arte americana nel mercato mondiale.
Ma Oldenburg guarda avanti e punta sulla monumentalità di opere che ben presto costellano luoghi pubblici in America come in Europa: chi non ha mai visto ad esempio «Ago, filo e nodo» del 2000 in piazzale Cadorna a Milano? Quel nodo gigantesco viene dopo una serie di opere che hanno conquistato a Oldenburg e a sua moglie, l'artista olandese Coosje van Bruggen, scomparsa nel 2009, fama internazionale.
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La loro collaborazione nasce nel 1976 con «Trowel I» (Cazzuola I), collocato nel parco del Kröller-Müller Museum a Otterlo. Da allora realizzano insieme oltre 40 grandi progetti, commissionati da città e musei di tutto il mondo.
«Gli oggetti che noi scegliamo - ha dichiarato Claes in un'intervista ad Artribune - non sono astratti: hanno precise qualità figurative ma e date le dimensioni non sono più oggetti reali; questo ci permette di presentarli in situazioni anomale ma del tutto credibili. Non sono oggetti surreali, perché l'oggetto è ingrandito ma non distorto; a parte le dimensioni e l'intensità del colore, è tale e quale l'originale.
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I cambiamenti che noi apportiamo consistono nel togliere la "funzione", talvolta nel semplificarli; sono oggetti riformulati, ma mai oggetti fantastici». Dagli Anni 80 la coppia collabora con Frank Gehry, l'architetto che firma il Guggenheim di Bilbao. L'idea di fondo è abbattere in modo impertinente le differenze tra scultura e architettura.
Rimane famosa come frutto di questa collaborazione la performance veneziana del 1985: «Il corso del Coltello». Oldenburg, van Bruggen e Gehry si esibiscono in costume: al centro della performance una gigantesca scultura cinetica, «Knife Ship I», collocata all'Arsenale. Tra le loro opere: «Knife ship I» (1985) al Guggenheim Museum di Bilbao; «Lion's tail» (1999) a Venezia; «Cupid's span» (2002) al Rincon Park di San Francisco; «Scultura per caso» (2006-07) al Castello di Rivoli; «The Sixties» (2012) al Museo Mumok di Vienna.
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Nel 2012 il Museo Ludwig di Colonia ha allestito un'ampia retrospettiva della sua produzione scultorea: per Oldenburg l'arte drve invadere gli spazi pubblici e avvicinarsi alla gente.
In un'intervista di qualche anno fa diceva: «Dobbiamo essere ottimisti sull'interesse della gente verso le nostre opere. È la base del nostro lavoro, dal momento che pensiamo che la gente, la comunità che ci commissiona una scultura, l'amerà, e noi potremo stimolare la loro immaginazione. È questa idea che ci ha portati a uscire dal sistema dell'arte, dalle gallerie, dal museo, dal lavorare per mesi e mesi a opere che scompaiono nelle collezioni private. Desideriamo che tutti possano vedere il nostro lavoro. La nostra idea è di togliere l'arte dal piedistallo, farla uscire dai musei e dalle gallerie, e inserirla nello scorrere della vita».
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