Addio a Piera Degli Esposti, la regina scalza
Giorgio Gosetti per l’ANSA
piera degli esposti my italy
Se ne va poco dopo aver festeggiato i suoi magnifici 83 anni Piera Degli Esposti, anima bolognese e talento universale, regina scalza della scena italiana tra teatro, cinema, televisione e letteratura: scalza perché aveva il dono di sembrare sempre a suo agio nei panni più diversi, ma amava la vita come sinonimo di libertà.
Nata a Bologna il 12 marzo del 1938, Piera viene dal teatro d'avanguardia degli anni '60 e sono maestri come Antonio Calenda, Aldo Trionfo, Giancarlo Cobelli, a consegnarle le chiavi del teatro classico e moderno, tra Shakespeare e Giraudoux, Gombrowicz e D'Annunzio tra lo stabile dell'Aquila e il Teatro dei 101 dove incrocia giovani colleghi come Nando Gazzolo e Gigi Proietti.
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Quasi in contemporanea il suo vulcanico talento sbarca anche in televisione con l'originale televisivo "Il conte di Montecristo" diretto del 1966 da Edmo Fenoglio con Andrea Giordana che diventa il beniamino del pubblico della Rai. Un anno dopo è Gianfranco Mingozzi a farla debuttare al cinema con "Trio", mentre nel '68 compone insieme a Tino Buazzelli, Wanda Osiris, Fraco Parenti, Mario Pisu, il colorito cast del "Circolo Pickwick che Ugo Gregoretti dirige in sei puntate televisive.
Da allora la carriera di Piera non conoscerà soste, sempre equamente divisa tra la scena e il set, con una sete inesauribile per sfide ogni volta più complesse. La sua preparazione tecnica è fuori discussione, ma è il calore, il piacere dell'improvvisazione, la sensibilità nell'usare la voce con cadenze diverse, compresa la parlata nativa, a fare la differenza. Apparirà in una cinquantina di film, una ventina di sceneggiati, sarà protagonista a teatro per 50 anni buoni e ovunque porterà una freschezza, un sorriso, una professionalità assolutamente unici.
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La amano i fratelli Taviani ("Sotto il segno dello scorpione") e Pier Paolo Pasolini ("Medea"), Gianfranco Mingozzi e Lina Wertmuller (tra i suoi più grandi amici e complici), Giuseppe Tornatore ("La sconosciuta") e Marco Bellocchio ("L'ora di religione" che le valse il primo di tre David di Donatello), fino a Nanni Moretti "Sogni d'oro") e Paolo Sorrentino ("Il divo") in cui impersona la mitica e impassibile segretaria di Giulio Andreotti in una delle sue caratterizzazioni più celebri. In tv come non ricordarla nei panni della badessa dei "Promessi sposi" di Salvatore Nocita o in quelli di Clelia in "Tutti pazzi per amore" di Ivan Cotroneo.
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Anche a teatro amava l'impossibile che fosse lo "Stabat mater" del 2002 o "Gli asparagi e l'immortalità dell'anima" (dagli aforismi di Achille Campanile) del 2005. Nel 1997 comincia il suo sodalizio artistico con Dacia Maraini, l'amica di sempre, che la convince a scrivere a quattro mani "Storia di Piera". L'incontro delle due donne, l'una meticolosa analista dell'anima e l'altra narratrice naturale che attinge al vissuto per trasformarlo in creazione letteraria, produce un autentico evento editoriale. Vi Si racconta anche di un rapporto inusuale fra una madre e una figlia, rapporto carico di sensualità e di complicità, che si evolve e dura negli anni.
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Si racconta di un'infanzia sonnolenta: una bambina che ha covato i suoi sogni dentro una sartoria, gli abusi degli amici del babbo, e infine la scoperta del teatro come la "casa dei desideri". Si racconta la storia di una vita. Da libro-scandalo "Storia di Piera" diventa anche soggetto e sceneggiatura, con la complicità di Marco Ferreri che ne fa nel 1983 uno dei suoi film più personali e intensi, ma in cui la mano di Piera Degli Esposti guida e indirizza ogni gesto delle protagoniste Hanna Schygulla e Isabelle Huppert.
La vicenda letteraria avrà due seguiti: "Piera e gli assassini" sempre con Dacia Maraini nel 2003 e "L'estate di Piera" (con Giampaolo Simi) appena un anno fa. Invece la sua voce pastosa e calda, immediatamente riconoscibile accompagnerà "La lunga vita di Marianna Ucria" (il romanzo più famoso di Maraini) nella bella lettura del 2011.
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Negli ultimi anni è stata anche apprezzata regista d'opera fin dalla "Lodoletta" di Piero Mascagni e una memorabile "La voce umana" di Francis Poulenc. Piera degli Esposti amava i giovani e per loro si è spesa fino all'ultimo istante. Fosse Riccardo Milani che ha "scoperto" tra "Una grande famiglia" e "Benvenuto Presidente" o Alessandro Aronadio ("Orecchie") o Sebastiano Mauri e Filippo Timi che accompagnava nel 2017 al successo di "Favola", nessun progetto fuori dalle righe la spaventava, anzi la stimolava a dare una diversa immagine di sé.
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Ma il fondo della sua vena artistica rimaneva sempre collegato a quel teatro che l'aveva formata: nel contatto diretto con il pubblico, nell'emozione della recita a soggetto, nella creazione rigorosa che sfocia nell'improvvisazione ritrovava ogni volta un gusto quasi infantile della messa in scena della vita come gran teatro dei giochi. Le piaceva ridere, stare in compagnia, difendere con forza le sue idee ed era sempre curiosa delle idee altrui. Ha molto amato, Piera, spesso uomini più giovani di cui la incantava la sete di vita, e mai si è sposata.
Di sé diceva: "Più che un'attrice sono una grande costruttrice di immagini: potrei mitizzare anche il primo gelataio che incontro per strada". Adesso ci manca la sua risata argentina, la sua passione per la politica e l'arte, la sua voglia di conoscere e di raccontarsi senza pudore. Ci manca la "regina scalza".
Biografia di Piera Degli Esposti
Da www.cinquantamila.it – la storia raccontata da Giorgio Dell’Arti
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Piera Degli Esposti (Piergianna D.E.), nata a Bologna il 12 marzo 1938 (81 anni). Attrice. Tra i numerosi riconoscimenti ricevuti: tre premi Ubu come miglior attrice, per Molly cara (1978/1979), Rosmersholm (1979/1980) e Madre Coraggio e i suoi figli (1991/1992); due David di Donatello come miglior attrice non protagonista, per L’ora di religione (2003) e Il divo (2009); due Nastri d’argento speciali, uno come «non protagonista dell’anno per le numerose interpretazioni» in Il divo, L’uomo che ama, Giulia non esce la sera (2009), l’altro come «miglior attrice protagonista nel documentario» per Tutte le storie di Piera (2014).
«L’attore ha un compito nella vita, arduo ma splendido: quello di consolare, dei lutti, degli abbandoni, delle malattie. Calarsi nel buio profondo, per risalire poi portandosi alla luce»
• Giovinezza complessa. «Papà era sindacalista col Pci, mamma era meravigliosa, ma maniaco-compulsiva, più volte sottoposta a elettroshock. D’estate, usciva in bici di notte e raggiungeva i suoi amanti, mentre io la rincorrevo a piedi.
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D’inverno, cadeva in letargo. Papà fu mandato dal partito in Veneto, per limitare lo scandalo. Il partito avrebbe potuto considerare che, trasferendo papà, lasciava sola non una moglie, ma anche due bambini: io e mio fratello Franco, mentre mia sorella Carla studiava a Mosca, nella scuola del Pci. Però, il contatto coi filarini della mamma era anche lusingante. Ho avuto un’infanzia liquorosa. Credevo ai contadini che, per consolarmi, sospiravano: “Tua madre non fa niente di male, dà via del suo”» (a Candida Morvillo).
«Avrebbe voluto sposarlo, quel padre: “Lo dissi pure in classe, alle elementari: ‘Peccato, non sono il suo tipo’. Figuriamoci la maestra: ‘Che c’entra il tipo?’, mi domandò stravolta. A casa mia davo il tormento a tutti con la storia di Limone, un paese del Garda. Avevo letto che lì si erano sposati tra congiunti. Perché non farlo anche noi? ‘Ma basta con questo Limone del Garda!’, protestava papà”» (Leonetta Bentivoglio).
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«Era il solo che mi togliesse la paura. […] Eravamo una famiglia chiacchierata: tutti sapevano che mio padre era stato spedito in Veneto per la cattiva condotta della moglie. Ma camminare al suo fianco mi faceva sentire sicura, come vicino a un re» (a Simonetta Fiori).
«Mia madre […] era una donna erotica molto complicata. Io ero una ragazzina di 14 anni. È vero che io vivevo con lei e che mia madre stava con i suoi uomini che poi diventavano i miei, ma è altrettanto vero che io poi ho cercato di allontanarmi. […] Se non l’avessi fatto, non sarei qui. Proprio con il teatro e con il cinema, ho fatto in modo di diventare altro da me: altra signorina, altra donna, altra voce, altra storia» (Katia Ippaso).
Abbandonata precocemente la scuola per seguire la madre, dopo un periodo trascorso a fare la sarta a Bologna si trasferì a Roma, con l’obiettivo di dedicarsi alla recitazione. «Volevo fare teatro perché pensavo di potermi nascondere dietro ai personaggi. Avevo paura di essere come mia madre. I dottori dicevano che si trattava di una malattia ereditaria: “Diventerai come lei”. Ne erano convinti» (a Enrica Brocardo).
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«All´inizio, da ragazza, non l´ammisero all´Accademia d´arte drammatica, “forse a causa del mio modo aeroplanistico di muovere il corpo e le braccia, come per prolungare la parola”. Eppure nessuno riuscì mai a farla dubitare del suo talento» (Bentivoglio).
«Com’è iniziato tutto? “Con un sacco di rifiuti. Dall’Accademia d’arte drammatica ai teatri stabili, dai provini televisivi a quelli radiofonici. Mi restava l’avanguardia. Approdai insieme a Proietti al Teatro dei 101 di Roma, una specie di garage. Ci davamo da fare per pubblicizzare gli spettacoli: io portavo le locandine ai giornali, Gigi suonava la chitarra nelle osterie”. Fu lì che ricevette i complimenti di Giorgio de Chirico.
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“Ero in scena con A dieci minuti da Buffalo di Günter Grass. Pur di lavorare avevo accettato la parte di un marinaio, e per sembrare un uomo mi ero raccolta i capelli dentro il berretto. Al termine dello spettacolo, lui si presentò dietro il sipario. ‘Molto bravo’, mi disse. Io non riuscivo a parlare per l’emozione. Gli risposi solo: ‘Ma io sono una femmina’. E lui, senza scomporsi: ‘Bravo lo stesso’”» (Fabrizio Accatino).
«Lavora a Roma, al Teatro dei 101 di Calenda, con Gigi Proietti, poi a L´Aquila con Aldo Trionfo e allo Stabile di Firenze con Tino Schirinzi. Diventa Madre Coraggio e la Madonna della Passione per Calenda, La Folle de Chaillot e Cleopatra per Cobelli. Affronta Medea e La figlia di Jorio. È una Madonna dei bassifondi per Chérif. Molly nello scabroso monologo dall´Ulisse di Joyce, Molly cara, con la regia di Ida Bassignano, che la rivela al grande pubblico. Quando Eduardo la vede, bofonchia: “Sei ’o verbo nuovo”.
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Quel ruolo, spiega, “segnò la possibilità di essere me stessa in scena. Da allora non sono stata più un´attrice che lasciava la sua vita in camerino. La mia diversità coincide con l´impudicizia nel mostrare il mio indagarmi”. Il suo asimmetrico e fantasioso talento significa anche ripercorrere le proprie strade: “L´ho scritto spesso sui copioni, di lato.
Accanto a Cleopatra mettevo: voce di mamma. Sotto Medea appuntavo: signora Elide, il nome di un´amica dei miei genitori. Sentivo suoni nei personaggi e ci andavo dentro”» (Bentivoglio). Nella seconda metà degli anni Sessanta iniziò a lavorare anche per la televisione, in sceneggiati come Il conte di Montecristo di Edmo Fenoglio e Il Circolo Pickwick di Ugo Gregoretti, e per il cinema, diretta da registi come Paolo e Vittorio Taviani (Sotto il segno dello scorpione), Pier Paolo Pasolini (Medea), Luigi Zampa (Bisturi – La mafia bianca), Nanni Moretti (Sogni d’oro) e Lina Wertmüller (Scherzo del destino in agguato dietro l’angolo come un brigante da strada, Il decimo clandestino, Metalmeccanico e parrucchiera in un turbine di sesso e politica).
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«Pasolini […] di lei disse: “Mi piace la tua faccia perché non è da attrice”. “Mi disperai, invece era un complimento”. E pensare che Piera il cinema non l’amava. “Ero disinteressata: mi piaceva muovere il corpo, e il cinema non mi permetteva di farlo. In realtà ho sempre continuato a fare teatro, cinema e televisione, anzi, proprio quando, a 64 anni, ho deciso che non volevo più fare teatro, il cinema mi ha cercata e non mi sono più fermata. Ho fatto lavorare la mia faccia proprio quando, a quell’età, in generale, la faccia uno la difende”» (Francesca De Sanctis).
Nel 2002, infatti, recitò ne L’ora di religione di Marco Bellocchio: «Interpretavo il personaggio di zia Maria, fascista, terribile. Una donna così lontana da me che ho dovuto studiare a fondo per allontanarmi mentalmente e caratterialmente da me stessa». «Di L’ora di religione non potrò mai scordare il lungo applauso del pubblico di Cannes per la mia scena con Castellitto. I francesi che applaudono un’attrice straniera: un evento raro». «A Marco devo molto: con L’ora di religione ha rilanciato la mia carriera cinematografica, per cui ho vinto il mio primo David di Donatello. Senza di lui non credo mi avrebbero chiamata Sorrentino per Il divo o Tornatore per La sconosciuta» (Emanuela Giampaoli).
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Poco dopo si riconciliò anche con la televisione, diventando «il volto noto di fiction di successo con al centro la famiglia: Tutti pazzi per amore, in cui è la nonna Clelia, suocera di Emilio Solfrizzi, e Una grande famiglia, in cui è Serafina, l’enigmatica segretaria degli industriali Rengoni, interpretati da Gianni Cavina e dal “figlio” Alessandro Gassmann» (Albarosa Camaldo).
«Quando m’è piombata addosso la possibilità di fare fiction, tante persone a me care me lo sconsigliavano, e invece sento di aver fatto bene a misurarmi con questa nuova sfida. Penso a cose come Tutti pazzi per amore, o Una grande famiglia: credo di esser stata capace di “rimpicciolire” (mi si passi il termine: lo dico in senso buono) la mia recitazione abituata a spazi larghi (il grande schermo o il palcoscenico) ad una dimensione che calza molto bene la tv» (Cristiano Governa).
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Tuttora attiva soprattutto in teatro, da ultimo con Wikipiera, sorta di intervista-spettacolo incentrato sulla sua vita personale e professionale, che la vede affiancata sul palcoscenico da Pino Strabioli. «Con Pino Strabioli sto bene, a mio agio, e questo per me è fondamentale. Lui […] è bravissimo a raccontare aneddoti, a stimolare le risposte: ne viene fuori uno spettacolo divertente, pieno di ironia. Io per parte mia recito alcuni brani che mi hanno reso famosa, dal monologo di Molly Bloom al Dondolo di Beckett» (Alessandra Vindrola) • Insieme a Dacia Maraini, sua grande amica, ha scritto due libri autobiografici, Storia di Piera (Bompiani, 1980) e Piera e gli assassini (Rizzoli, 2003).
Dal primo, incentrato sugli anni della sua giovinezza, e in particolare sul suo rapporto con i genitori, Marco Ferreri ha tratto nel 1983 l’omonimo film, in cui a interpretare la madre e il padre della Degli Esposti sono rispettivamente Hanna Schygulla e Marcello Mastroianni. «Vi raccontava di quando la madre la coinvolgeva nelle proprie scorribande erotiche, per poi andare in ospedale, con la figlia per mano, a scontare i suoi peccati con gli elettroshock: “Lei mi diceva: ‘Sono state le immagini a portarmi qui dentro’. Quando uscì il film, era ricoverata. Le infermiere le chiedevano: davvero da giovane eri tanto birichina? Volle vederlo anche lei, quel film, e il suo unico commento fu che Hanna Schygulla, che la interpretava sullo schermo, sapeva andare bene in bicicletta”» (Bentivoglio).
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Nel 2013 la Degli Esposti è stata inoltre la protagonista del documentario Tutte le storie di Piera di Peter Marcias • «Di rifiuti, ne ha serviti anche lei, alcuni memorabili come a Carmelo Bene e Giorgio Strehler. “Quello di Bene fu un lungo corteggiamento. Mi voleva per l’Adelchi. Insistette molto, mi invitò nella sua casa di Forte dei Marmi. Accettai, ma poco dopo mi resi conto che era un personaggio infrequentabile, di una crudeltà senza pari. Me la diedi a gambe. A Strehler invece dissi di no subito. Non era mancanza di stima, ovviamente, ma il timore di non riuscire a preservare il mio metodo di recitazione. La prese molto male. Per lui divenni “la stronza”, e nelle manifestazioni pubbliche dava istruzioni che io non finissi seduta accanto a lui”» (Accatino)
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• Nubile, senza figli (vari aborti volontari alle spalle). Numerose relazioni sentimentali all’attivo, tra cui quella col regista Marco Ferreri. «Io amavo i suoi film già prima di conoscerlo, e mi attraeva come uomo. […] La prima volta che abbiamo iniziato a darci le carezze mi ha detto “Lo sapevo, che c’avevi la canottiera”, perché io l’ho sempre portata. Gli uomini stanno tutti lì ad andare in palestra per avere un corpo appetibile, ma non è da là che per le donne viene l’abbandono: viene dalla testa, dagli occhi, dall’ironia». «"Non sono mai stata senza un fidanzato, ma un marito non l’ho mai voluto".
Perché? "Non è gentile dirlo, ma tendo a stancarmi. Forse perché per me è più importante l’immaginazione dell’amore, che però non regge alla prova della quotidianità. La dimensione affettiva spegne il mistero dell’amore. E io al mistero sono legata. […] Per un lungo tratto ho cercato fidanzati più grandi di me, ma accade a un certo punto che i padri non ti vogliano più. Quando diventi grande, ti vogliono solo i figli. E allora forse inconsciamente ho cominciato a giocare con il figlio che non avevo e non ho mai voluto". Perché non ha voluto figli? "Perché avevo già partorito una bambina, che sono io. E lei da sola costituiva un problema".
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Prima Massimo, 18 anni di meno. Poi Alberto, più giovane di 29 anni. "Questi miei amori piccoli mi hanno dato una grande allegria. Non c’era la competizione che può nascere con gli amori grandi. Mi volevano un grande bene. E, siccome io mi voglio bene, con loro è stata una cosa bella"» (Fiori).
«Alberto», il regista teatrale Alberto Casari, col quale ebbe la relazioni più lunga della sua vita (tredici anni), morì a causa di un incidente stradale nel 2001, a soli 34 anni. «Certo la morte di Alberto in macchina […] è stato uno choc, benché annunciato, perché lui andava fortissimo. Però onestamente non lo volevo più: avevo bisogno di qualcuno più quieto». «L’erotismo che continuo a sentire ha a che fare con il mistero degli amori che non si svelano mai completamente. La passione per il gioco amoroso non mi abbandona. Mi piace prendere delle cotte. Mi piacerà fino all’ultimo. Quello che provo oggi è molto vicino a quello che provavo prima della morte di Alberto»
• «Follie per amore? A me è capitato: con Robert Mitchum. Me ne innamorai a 14 anni, vedendolo in un film, e per anni ho coltivato questa passione. L’ho immaginato, l’ho inseguito, gli ho persino scritto una lettera d’amore. E alla fine l’ho incontrato, a Roma, nel 1996, a casa di Lina Wertmüller.
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Appena lo vidi, non capii più nulla: era splendido, nonostante fosse prossimo agli ottant’anni e fosse già stato colpito dalla malattia che lo avrebbe portato via l’anno seguente.
Passammo una serata meravigliosa. Io ero seduta accanto a lui e, alla fine della cena, gli lessi la lettera. Mi abbracciò, mi fece sedere in braccio a lui. Io sentii il mio corpo fremere. Alla fine, ci baciammo. Sulla bocca. E non era certo un bacio da ragazzini. Mi disse di andarlo a trovare a Santa Barbara, dove viveva. E, prima di andarmene, mi chiese se volevo andare da lui, in albergo. Non lo feci, ma non per moralismo.
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Se lo avessi visto nudo, spogliato, se avessimo fatto l’amore, forse l’avrei visto come un uomo fra tanti. Avrebbe perso quella dimensione magica, da mito. Invece, con quell’incontro, e quell’unico, irripetibile bacio, Mitchum sarebbe rimasto per sempre l’amore dei miei 14 anni. Il “mio” Robert» (a Monica Mainardi) • «Nelle relazioni, sono sempre stata portata a conquistare, stancandomi presto. Mia mamma del bisogno faceva il suo padrone, mentre io lo temo» (Brocardo).
«Lei ha amato anche ragazze? “È successo: un buon rapporto che – all’ombra del proibito – all’inizio mi pareva gran cosa, poi è ancora finito nella stanchezza. […] Io comunque mi incanto di chi si incanta di me: se quello insiste, ci casco un po’ dentro”» (Marina Cappa). • Amica fraterna di Lucio Dalla (1943-2012), sin dall’infanzia. «Quanto bene gli volevo! Ci chiamavamo i “marzolini”, perché entrambi nati in marzo. Era stato il compagno di banco di mio fratello, compagno anche mio.
Dopo la scuola, andavamo alle feste dell’Unità, dove lui già cantava e io vendevo agli stand. Andavamo insieme in Lambretta, gli dicevo: tu hai una sola cosa bella, i fianchi alla Robert Mitchum. Siamo sempre rimasti in contatto»
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• «Per tantissimi anni, ho seguito un percorso psicoanalitico. […] Quando […] ho incontrato il buddismo di Nichiren Daishonin, ho capito che stavo andando via dalla psicoanalisi. Non so ben spiegare quale forza morbida e potente fosse quella che mi stava portando via.
Mi sono legata a Nichiren Daishonin (il monaco giapponese del 1200 che ha trasmesso la legge mistica del Sutra del Loto) come se fosse l’uomo di casa. Pregare mi fa diventare una persona più attenta e più saggia. È una preghiera che spinge all’azione. Non faccio in tempo a pensare che dovrei fare una certa cosa, e mi ritrovo ad averla già fatta senza sapere come» (Ippaso)
• «“Io mi alzo ogni giorno con una canzone in testa. E non solo perché ai miei tempi si ascoltava la musica in macchina, dove magari si faceva anche l’amore, e ci si baciava a tempo di canzonette.
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Mi ricordo che, le due volte che ho vinto una fascia da Miss sull’Adriatico, in sottofondo, cantavano. E poi, per passare le ore in sartoria, cantavo dentro di me. Ho continuato a farlo anche quando stavo in sanatorio. Certo, in me c’è anche un essere impressionabile, una donna paurosa”.
Le paure di oggi sono le stesse di un tempo? “C’è la malattia, perché ho avuto tanti problemi ai polmoni e nel ’77 mi hanno tolto le pleure: per un’attrice recitare senza pleure è come per un corridore avere problemi alle gambe”» (Cappa)
• Terrorizzata dall’idea (infondata) di essere uccisa, nel suo stabile si è fatta costruire un ascensore di vetro, trasparente: «Se c´è un assassino che mi aspetta sulla porta, lo vedo subito» • «Il 9 maggio 1978, dopo un anno da tregenda per la malattia ai polmoni, […] mi ritrovai all’alba in via Caetani, a Roma, davanti alla sede dell’Istituto di Dramma Antico dove avrei dovuto incontrare un funzionario che conservava per me due biglietti di treno per Siracusa.
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Tornavo a recitare al Teatro Greco dopo un anno di sosta forzata, ma per diktat medico, dovuto al rischio di una crisi polmonare, non potevo prendere l’aereo. Lo aspettai appoggiandomi a una R4 rossa e poi, dopo quasi un’ora e mezza, visto che non arrivava nessuno, mi spostai per prendere un caffè. Sapere più tardi che in quell’auto c’era stato Moro mi impressionò molto.
Mi consolai pensando di avergli fatto compagnia»
• «Ci sono attori che vogliono essere redarguiti, altri che hanno bisogno del successo o che per i soldi farebbero tutto. Io ho bisogno dell’affetto. Mi basta che mi si voglia bene. […] Io sono molto sicura del mio talento, ma ho bisogno di sentirmelo confermare. Non prendo alla leggera niente, sono pesante di mia struttura».
«La verità è che io ho creduto al mio talento. Visto che nessuno ci puntava una lira, se non l’avessi fatto nemmeno io non sarei andata avanti di un solo passo». «“Il mio metodo, un metodo che all’inizio ho faticato a far accettare, l’ho creato io. E l’ho inventato in casa”. In cosa consisteva?
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“Nella scoperta di sé stessi, dei limiti, dei confini. Spingevo i cassetti della madia con il ventre in maniera selvaggia, sperimentavo il tono della voce, parlavo da sola affacciata su un giardino disabitato. I vicini andavano da mia madre: ‘Abbiamo visto Piera alla finestra: con chi parla?’”. È stato difficile far accettare il suo metodo? “Non piaceva a nessuno. I premi che ho avuto in seguito pareggiano a stento i rifiuti che ho avuto. Far accettare agli uomini l’idea che fossi una duellante è stata una piccola rivoluzione. Pretendevano di essere gli unici a duellare, i maschi”» (Malcom Pagani).
«Mi sento un’artigiana. Studio tante ore, mi preparo con metodo, sono meticolosa. E, dopo tanto studio, ecco che spunta una vocina dentro di me che ha del miracoloso. La vocina si adagia sullo studio compiuto e riporta a galla la mia parte bambina» • ««Si sente tragica, “perché mi piace il mito: grazie al teatro ho scoperto che nella mia famiglia era di casa. Mi piace la passione, la gente che ne è preda, che compie imprese e porta a termine vendette. Sono felice di avere avuto un´infanzia teatralizzata”.
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Però è anche comica, conosce il gusto del paradosso, la trasgressione surreale, le sfumature dell´ironia. Lo dimostra in Un´indimenticabile serata – Gli asparagi e l´immortalità dell´anima. […] “Sono sempre stata in contropiede. Quando mi si voleva vedere bloccata nei ruoli drammatici, ecco arrivare Campanile. La sua comicità mi piace e mi assomiglia. Trovo anche politicamente importante che si rida in modo intelligente, fuori dalla volgarità di bassa lega”» (Bentivoglio)
• «Quando ho fatto Bisturi – La mafia bianca, il regista, Luigi Zampa, mi diceva che ero una ragazza con la faccia da cinema. Secondo Pasolini somigliavo ad Alberto Sordi e, quando ridevo, sembrava che piangessi». «Attrice creativa nel suo antinaturalismo, icona pluriennale delle avanguardie, musa di cineasti e scrittori» (Bentivoglio). «Appartiene a quella categoria di attori superiori, che ti portano dove vogliono. Piera Degli Esposti appartiene alla categoria degli inarrivabili» (Paolo Sorrentino). «Forse è l’attrice più umile che abbiamo mai incontrato. È una grande, e ha coscienza di esserlo, ma non ha bisogno di dimostrare niente: lei è» (Paolo e Vittorio Taviani)
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• «In una società che si è votata al lifting e alla metamorfosi delle facce e dei corpi, ho conservato il mio volto senza deturparmi. Si rimane giovani o ci si illude di farlo soltanto con la testa, non con le plastiche». «La mia è sempre stata una faccia di sentieri e segni non finti, come quella di Lee Marvin o Charles Bronson». «Il discorso dell’età non mi sfiora perché io non mi vedo anagraficamente.
È vero, non vivo in un Paese in cui esistono le Judi Dench e le Maggie Smith. In Italia le domande sono “ma come si fa ad andare a letto con una donna di 80 anni?” e “che fa, lavora ancora?”. Rispondo che io mi sento di poter fare ancora grandi personaggi. In tv vorrei recitare il ruolo di un commissario donna. Perché le commissarie dovrebbero essere ragazze? Io sono convinta che ci vogliano attrici con l’esperienza nel volto» • «A me la vita piace molto, anche se è spesso attraversata da giorni di pioggia. Ci abituiamo alle stagioni e ci abituiamo agli imprevisti. Consapevoli. Dritti contro il vento. Senza disamore alcuno». «Temendo io la morte, che già prende tanto spazio nei miei pensieri, vorrei sentirmi un po´ immortale. […] Questa è la cosa patetica su cui a volte mi piace fantasticare. D´altra parte, lascio alla fantasia il suo diritto di vivere anche sopra la vita» (ad Antonio Gnoli). «La psicoanalisi […] mi permise di camminare. Ma l´analista non mi ha guarita dall´onnipotenza. Chiaro che so che si muore, però mica tanto. Non sono del tutto certa di morire, il che mi rende contenta».
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