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    OPERA APERTA - NON SAPENDO BEN DISTINGUERE LA PROVOCAZIONE DALLA RICERCA, I BACUCCHI DELLA CRITICA E DEL LOGGIONE IMPICCHEREBBERO DAMIANO MICHIELETTO AI CORDONI DEL SIPARIO – ‘’LA NOSTRA CULTURA TEATRALE È SOPRATTUTTO QUELLA DELL'OPERA LIRICA. MA NON DOBBIAMO PENSARLA COME A QUALCOSA DI IMMUTABILE. UNA TRADIZIONE CHE NON AMMETTA UN TRADIMENTO NON AGGIUNGEREBBE NULLA - CIÒ CHE MI PIACEREBBE FARE ORA È UN MUSICAL. E VISTO IL TEMPO CHE VIVIAMO SAREBBE UN ALLEGGERIMENTO’’


     
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    Antonio Gnoli per “la Repubblica” -ROBINSON

    antonio gnoli foto di bacco antonio gnoli foto di bacco

     

    Può piacere o provocare un sussulto di indignazione. Ma è così che funziona la nostra tarda, anzi tardissima, modernità. Fai qualcosa che somiglia all' effetto di un colpo di pistola e aspetti la reazione del pubblico. Ma non pensate che sia facile. La provocazione è un' arte sottile e rischiosa.

     

    Damiano Michieletto se ne serve con disinvoltura, in un territorio, quello della lirica, votato alla conservazione. I suoi allestimenti forzano la scena in chiave ipercontemporanea, provocando rabbia fra i tradizionalisti, ma entusiasmano tra gli innovatori.

    damiano michieletto damiano michieletto

    Potenza della lirica, verrebbe da dire, dove ogni dramma è un urto. È adorato all' estero, contrastato in patria. Se potessero schiere di loggionisti lo impiccherebbero ai cordoni del sipario.

     

    Ti senti in pericolo ogni volta che allestisci un' opera?

    «Che intendi con pericolo?».

    IL RIGOLETTO DI DAMIANO MICHIELETTO IL RIGOLETTO DI DAMIANO MICHIELETTO

     

    Sbagliare una regia, strafare, non piacere.

    «L' eccesso se ben governato porta dei frutti. Il pericolo che sento veramente è quello di non avere la cura necessaria per dare il giusto valore alle cose. È tutta una questione di attenzione che devo rivolgere verso quello che faccio, riuscendo a suscitarla anche in coloro che mi vedono e mi ascoltano. Perfino nella vita e nei rapporti privati credo sia così».

     

    A proposito della tua vita hai sottolineato spesso l' irrequietezza.

    damiano michieletto 1 damiano michieletto 1

    «È una costante della mia esistenza. Ma so, per esperienza, che devo controllare il mio umore, portando l' inquietudine verso una cifra creativa, altrimenti mi si ritorcerebbe contro. Quello che mi spaventa e mi rattrista è sentire la finitezza delle cose, il loro limite che spesso è il limite del tuo sguardo sul mondo».

     

    Come lo superi?

    «Per quel che mi riguarda cercando una mia autonomia. Ho iniziato a lavorare molto presto proprio per mettere in pratica una forma di indipendenza. Per un periodo sono stato in una fabbrica che produceva plastiche e ricordo soprattutto il rumore frastornante delle macchine che "stampavano" provette per gli ospedali. Perciò, ogni volta che comincio a lamentarmi penso a quella esperienza e smetto immediatamente di piagnucolare».

    IL RIGOLETTO DI DAMIANO MICHIELETTO AL CIRCO MASSIMO IL RIGOLETTO DI DAMIANO MICHIELETTO AL CIRCO MASSIMO

     

    Ti ritieni fortunato?

    «Se arrivi dove sono giunto io, lo sei per forza. Ma conta anche il lavoro, la determinazione, le origini e la voglia di farcela».

     

    Sei nato a Venezia a metà anni Settanta. Come guardi oggi a quel decennio?

    «Fu un periodo di forti proteste. Alcuni eventi, come la legge e il referendum sul divorzio, hanno cambiato l' Italia. In quel decennio dominava la piazza reale e non quella virtuale di oggi. Richieste legittime e scontri violenti culminati nell' omicidio di Moro che in famiglia fu vissuto con molta partecipazione. Di spensierato mi resta un vago ricordo della disco-music, al cui pensiero ancora oggi mi viene voglia di ballare. Poi, è vero, sono nato a Venezia, ma ho vissuto a lungo in provincia».

    damiano michieletto damiano michieletto

     

    Dove?

    «A Scorzé, un paese piccolo e modesto. Ci vivevano i miei numerosissimi parenti. Mio nonno ebbe 13 figli e fu l' ultimo esponente di quella stirpe contadina ormai completamente dissolta. Ricordo gli animali e il lavoro nei campi. Era un periodo di ristrettezze. Il riscaldamento si riduceva a una cucina a legna e d' inverno andavo a letto con la calzamaglia. Non amavo la scuola, facevo una fatica enorme a stare seduto per tanto tempo. Mi piaceva starmene fuori, nei campi, a giocare, costruire capanne, pescare, correre in bicicletta».

     

    DAMIANO MICHIELETTO SALOME DAMIANO MICHIELETTO SALOME

    E leggere?

    «Ho scoperto tardi il senso della lettura, durante le scuole superiori. Ma ti confesso che non sono mai stato un avido lettore di romanzi, ho preferito qualche testo teatrale e la poesia. Banale dirlo ma Leopardi è stato il mio preferito. E forse ha lenito certe frustrazioni».

     

    Quali?

    Elisir d' amore, Damiano Michieletto Elisir d' amore, Damiano Michieletto

    «Quelle, ad esempio, di stare in un mondo piccolo e con la voglia di scoprire cosa c' era fuori. Un po' come la famosa "siepe". Non ambivo alla grande città perché penso che la provincia sia davvero il luogo dove è più facile creare. È anche il posto dove è normale annoiarsi e da bambino provavo questo sentimento che allungava le giornate rendendole a volte infinite. Per spezzare il ron ron suonavo la chitarra e cantavo».

     

    Quanto ti è rimasto addosso di quel mondo?

    Elisir d' amore, Damiano Michieletto Elisir d' amore, Damiano Michieletto

    «L' ambiente familiare determina totalmente chi sei, credo sia una specie di legge che vale per chiunque. È la costellazione dentro cui ti trovi, che non hai scelto e con cui devi fare i conti. Oggi sono lontanissimo da quel mondo: vivo in un appartamento, prendo molti aerei e ho una vita sradicata. Mi resta il dialetto che considero la mia lingua madre. È il paradiso perduto che ritrovo ogni qualvolta le emozioni salgono di tono. Entusiasmo o rabbia non importano, ciò che conta è ritrovarmi a viverli nella mia lingua. Mi accade, soprattutto quando sono in posti lontani, come Tokio o Mosca, mi accadeva meno negli anni universitari».

    damiano michieletto damiano michieletto

     

    Dove hai fatto l' università?

    «A Venezia. Mi sono laureato prima che ho potuto perché nel frattempo era già nata la mia prima figlia. In un anno sostenni 14 esami e alla fine ho fatto una tesi in storia del teatro con Paolo Puppa. Affrontai il tema della pedagogia teatrale partendo dalla mia esperienza alla scuola "Paolo Grassi" di Milano con Gabriele Vacis».

     

    DAMIANO MICHIELETTO - “VIAGGIO A REIMS” DAMIANO MICHIELETTO - “VIAGGIO A REIMS”

    Riassumendo: eri uno studente padre con velleità teatrali?

    «La verità è che avevo soprattutto velleità paterne, tentando di occuparmi di mia figlia il più possibile. Quell' esperienza mi stava cambiando la vita e in quel momento non sapevo che cosa avrei fatto in futuro. Da un lato c' era la musica e dall' altro il teatro».

     

    Avevi alle spalle l' esperienza al "Paolo Grassi"?

    DAMIANO MICHIELETTO - “VIAGGIO A REIMS” 1 DAMIANO MICHIELETTO - “VIAGGIO A REIMS” 1

    «Alla scuola di teatro ero entrato superando il provino come attore e come regista. Poi ho scelto regia nella convinzione che come attore non sarei stato un granché».

     

    Il passaggio alla lirica come è avvenuto?

    «Un giorno a Milano un insegnante mi fece notare che ero portato per la lirica. Era un curioso signore giapponese, Kuniaki Ida, con un modo tutto suo di parlare italiano. Fu divertente quando mi disse: "Tu giocoso, tu perché non fare Don Giovanni?" . Detta da chiunque altro sarebbe suonata come una presa in giro; ma da lui, che veniva da un paese che pensa che la nostra lirica sia una delle vette della creatività artistica, mi sembrò un invito sincero».

    PETER BROOK PETER BROOK

     

    E cosa facesti?

    «Sul momento niente. Poi, qualche mese dopo, mi accadde di andare ad Aix-en-Provence dove Claudio Abbado dirigeva Don Giovanni con la regia di Peter Brook. Sai quando nel fare un solitario le carte alla fine si combinano tutte? Ecco, improvvisamente sentii che si stava realizzando l' incastro perfetto tra ciò a cui assistevo e quello che avrei voluto diventare».

     

    Ho letto del ruolo che Peter Brook ha rivestito nella tua crescita. In che senso ti è parsa una presenza importante?

    «È stata una fascinazione più che una vera conoscenza, anche perché non l' ho mai incontrato; però sono diventato amico della figlia Irina. Diciamo che quel primo contatto visivo con le sue idee mi ha spinto a leggere i suoi libri. Di solito davanti ai testi che mi spiegano cos' è il teatro mi annoio profondamente. I suoi devo dire sfuggono ai luoghi comuni».

    IL FALSTAFF DI DAMIANO MICHIELETTO IL FALSTAFF DI DAMIANO MICHIELETTO

     

    Chi sono stati i tuoi punti di riferimento?

    «Mi considero un orfano onnivoro».

     

    Orfano?

    Damiano Michieletto - o Damiano Michieletto - o

    «Sì, nel senso che non ho veri padri. Prendo da chi mi emoziona e le emozioni possono nascere da ambiti molto diversi. Mi piace giocare su quella che considero un po' la scacchiera della vita, dove i pedoni sono altrettanto indispensabili dei cavalli e della regina. L' importante è come muovi i pezzi. Non ho mai fatto l' assistente teatrale, forse perché ho voluto metterci subito la faccia. Penso sia un vantaggio rispetto alla cosiddetta "gavetta", perché questo per me è stato il modo di assumermi rapidamente le mie responsabilità».

    IL FALSTAFF DI DAMIANO MICHIELETTO IL FALSTAFF DI DAMIANO MICHIELETTO

     

    Quando parli di emozioni a cosa pensi esattamente?

    «Non è un pensiero geometrico che mi viene in mente. L' emozione è fatta di un materiale molto diverso dal cemento. È un' aria che vibra e che arriva da una voce, da un suono, da un corpo che si muove o danza. E che ti dà l' illusione che il tempo si arresti. Tutto quello che facciamo sopra un palcoscenico è sorretto dallo sforzo di raggiungere un' armonia dei segni. Perciò l' interprete che si protegge dietro al proprio strumento non arriverà mai ad emozionarmi. C' è sempre bisogno di mettersi un po' a nudo ed esporsi affinché possa arrivare qualcosa all' altro».

    MICHELE MARIOTTI E DAMIANO MICHIELETTO MICHELE MARIOTTI E DAMIANO MICHIELETTO

     

    Con quali direttori hai lavorato meglio?

    «Lavoro bene con quelli che hanno una sincera curiosità per il teatro. Antonello Manacorda, ad esempio, è stato il primo direttore con cui ho condiviso un percorso iniziato con Mozart alla Fenice e continuato poi a Vienna. Conservo un ricordo bellissimo di quelle prove in cui c' è stata una condivisione nel costruire lo spettacolo insieme».

     

    Hai allestito opere di Verdi e Rossini, che sono le due linee principali della lirica italiana. Che modelli rappresentano ai tuoi occhi?

    Damiano Michieletto 2 Damiano Michieletto 2

    «Intanto devono essere qualcosa che interpreti. Certo, la nostra cultura teatrale è soprattutto quella dell' opera lirica. Ma non dobbiamo pensare all' opera lirica come a qualcosa di immutabile. Quanto a Rossini, per me è il campione della commedia; mentre Verdi lo è della tragedia. Simboleggiano le due famose maschere del teatro».

     

    Questa tua rinuncia alla "fedeltà" all' opera è un modo per forzare la tradizione?

    «Una tradizione che non ammetta un tradimento non aggiungerebbe nulla».

     

    Guglielmo Tel, regia Michieletto - lo stupro Guglielmo Tel, regia Michieletto - lo stupro

    Più che un filologo sei un trasgressore di opere, mutando il più conservatore dei generi nel più duttile.

    «Non mi interessa la filologia perché non sono un musicologo. Diffido dei registi che fanno grandi discorsi teorici. L' opera è l' arte del recitar cantando e io di questo mi occupo, cercando di farlo bene».

     

    Con il linguaggio della provocazione si rischia di dover ogni volta alzare la posta. Ma a forza di provocare e sbalordire non finisci con l' oscurare le tue altre qualità?

    «Sì e confesso che il problema me lo pongo ed è la ragione per cui ho voglia di spaziare anche in altri ambiti creativi, dove la provocazione è meno stridente, almeno nei riguardi del pubblico».

     

    Guglielmo Tel, regia Michieletto - lo stupro Guglielmo Tel, regia Michieletto - lo stupro

    Però proprio il pubblico a Londra ti ha fischiato quando nel "Guglielmo Tell" hai letteralmente messo in scena uno stupro.

    «Nel primo atto un uomo arriva dicendo che ha ammazzato un soldato per difendere sua figlia che stava per essere stuprata. Dunque, non ho inventato un bel niente raccontando l' umiliazione che una donna è costretta a subire da parte di un gruppo di soldati. L' attrice e il coro l' hanno recitata benissimo. Fu una scena costruita sulla musica. E personalmente ero soddisfatto del lavoro».

     

    Non lo fu il pubblico. E neppure gli organizzatori.

    «Capisco che in certi casi si urta la sensibilità della gente e un regista deve tenerne conto. Lo so, come so che l' arte non esisterebbe senza la sua forza dirompente. Chi stabilisce che c' è un punto oltre il quale non si può andare? È una domanda cui non so dare risposta teorica. So però che si danno per scontate le opere del passato perché le abbiamo già in mano. È anche un fatto di pigrizia. A me piace, oltretutto, la creazione da zero di nuovi lavori. Per esempio, ho in cantiere un' opera a partire da Animal Farm di Orwell che mi pare un soggetto potentissimo».

    Guglielmo Tel, regia Michieletto - lo stupro Guglielmo Tel, regia Michieletto - lo stupro

     

    So anche di un tuo progetto su Wagner.

    «Per ora vago. Wagner è come mettersi un paio di bombole sulla schiena e tuffarsi ad esplorare gli abissi. Per un' impresa così occorre la giusta consapevolezza. Ciò che mi piacerebbe fare ora è un musical, risponderebbe al lato più frizzante della mia anima. E visto il tempo che viviamo sarebbe un alleggerimento».

     

    Ti riferisci al tempo del nostro contagio?

    «Mi sono beccato il Covid e ho passato il Natale con il virus, senza troppi sintomi per fortuna. Penso che per l' Homo sapiens sia importante vivere in un periodo in cui sentirsi vulnerabile e capire quanto meno che rallentare il ritmo è sano. Sognerei una settimana lavorativa composta da soli quattro giorni. Se oggi Seneca fosse tra noi ci chiederebbe perché abbiamo inventato tutta sta tecnologia se poi non abbiamo tempo per noi stessi».

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