Lorenzo d'Albergo per “la Repubblica - Edizione Roma”
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Le cancellerie del tribunale civile ne sono piene. Basta aprire uno dei cassetti di viale Giulio Cesare ed ecco spuntare decine, centinaia, migliaia di cause presentate da chi ha avuto la sventura di avere contatti troppo ravvicinati con l'asfalto capitolino. Piedi fratturati, caviglie storte, bacini in frantumi. La casistica al capitolo marciapiedi è ampia. Piuttosto dolorosa a leggere le lamentele dei tumefatti.
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Ma la risposta dei giudici è quasi sempre la stessa e si riassume così: «Sei caduto in una buca? Dovevi saperlo». Specie se il cratere è sotto casa. Oppure attorno al posto di lavoro. In burocratese si chiama «presunzione di conoscenza» - formula che qui, a Roma, ha le curiose sembianze di un accordo informale tra magistratura e la pubblica amministrazione a difesa delle casse del Campidoglio - ed è la croce degli avvocati romani.
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Per aggirarla servono pazienza, testimonianze di ferro e materiale fotografico di ottima qualità. Uno scatto per dimostrare che lì dove l'assistito di turno si è infortunato c'era una buca. Un altro per immortalare il rattoppo (tardivo) piazzato dopo la caduta dal Comune o dal Municipio.
raffaela lebboroni
Solo così si può abbattere il muro eretto dal tribunale civile. Lo sa bene anche l'attrice Raffaella Lebboroni, a fine luglio caduta in una voragine trasteverina in via Bertani (strada di competenza municipale) che le è costata un'estate con un piede ingessato. Suo marito, il regista Francesco Bruni, giusto l'altro giorno si è sfogato contro la «presunzione di conoscenza» sui social.
Il sunto del film-maker che ha portato sul grande schermo Scialla! e ora attende l'esordio della serie Tutto chiede salvezza su Netflix, è particolarmente efficace: «In pratica, se tu sei delle Prenestina e cadi in una buca a Trastevere, ok. Ma se sei di Trastevere, ciccio, lo dovresti sapere che lì c'è una buca. Come se poi le buche fossero elemento immutabile del paesaggio urbano».
raffaela lebboroni francesco bruni
Tornando alla caduta della compagna, parola alla protagonista: «Era fine luglio. Sono passata in lavanderia e mi sono allungata per via Bertani, una strada che non faccio mai per arrivare in piazza San Cosimato. Altro che presunzione di conoscenza. Quando il mio avvocato mi ha spiegato il significato di quella formula giurisprudenziale (valida in tutta Italia, ma a Roma particolarmente efficace se si conta il numero di buche disseminate in giro per la città, ndr) sono rimasta stupita. Ma comunque non mi rassegno. Faremo causa, anche perché la buca in cui sono caduta poi è stata coperta».
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In quel cratere, anzi due, in quei giorni è caduta «anche un'altra signora», riprende Raffaella Lebboroni. Che poi ricorda: «Quando sono arrivata al pronto soccorso, c'era anche un turista francese che era appena caduto in una buca. Tornando a me, la situazione sia assurda. Non conosco a memoria le buche sotto casa? Forse il piede avrei dovuto rompermelo a Centocelle».
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Anche qui, però, la giurisprudenza è vasta. E non propriamente amichevole. L'ultima sentenza alla voce buche è del 27 settembre ed estende il principio della «presunzione di conoscenza» al posto di lavoro. La storia è quella di una dipendente di un ufficio in via dei Gracchi, in Prati, scivolata sulla rampa per disabili che porta dalla carreggiata al marciapiede di via degli Scipioni, a due passi dalla fermata Ottaviano della metro A.
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I giudici sono impietosi: «Il sinistro si è verificato in ore diurne e in condizioni di visibilità. Né va sottaciuto che l'attrice (la persona che ha fatto causa, ndr) lavorava in zona e conosceva i luoghi teatro del sinistro e, più che verosimilmente, le condizioni del marciapiede» . Proprio così. Ecco «la presunzione di conoscenza» applicata.