Maria Chiara Aulisio per ilmattino.it
Il duetto dei gatti, quando mamma Concetta inciampò sul palcoscenico del Theatre de la Ville di Parigi, mille posti a sedere in Place du Chatelet, sulla rive droite della Senna, Peppe Barra lo racconta ogni volta, e ogni volta l'episodio si arricchisce di nuovi, esilaranti particolari.
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È vero che ormai è come la scena del cavalluccio rosso nel film di Luciano De Crescenzo, ma quando si parla di Peppe e Concetta insieme sul palco, è inevitabile.
«Allora cominciamo dall'inizio. C'erano voluti un paio di mesi di studio, e di prove, per imparare come si deve a recitare quel duetto».
Quello dei gatti?
«Un pezzo popolare di Gioacchino Rossini, che si divertì a scrivere questo brano buffo per ricordare la voce di due felini che tutte le mattine andavano a trovarlo».
E voi?
«Mamma e io dovevamo riuscire a trasformare in musica quei suoni. Vi assicuro che non fu per nulla facile interpretare i gatti: dovevamo cantare facendo solo miao».
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Solo miao?
«Siamo nel Theatre de la Ville, è la sera del debutto. Tutti molto emozionati, classica atmosfera da prima. E poi Parigi, l'entusiasmo di recitare davanti a un pubblico diverso... Ve la faccio breve».
Che cosa accadde?
«Comincio io a miagolare, mamma doveva entrare in scena subito dopo. La vedo salire sul palco, miagola e viene verso di me. A un certo punto inciampa in qualcosa».
Quindi cade?
«Sta per cadere, barcolla ma - da grande professionista - canta lo stesso. Ne venne fuori un lamento comico accompagnato da un'espressione del viso così ridicola, ma così ridicola che, nonostante i miei disperati tentativi, non riuscii a trattenermi: cominciai a ridere come un pazzo».
Scoppiò a ridere mentre avrebbe dovuto fare il verso del gatto pure lei?
«Certo, toccava a me, ma non ce la feci. Ero irrefrenabile: ridevo, ridevo, ridevo. Insomma, il duetto diventò un monologo. Mamma lo cantò tutto da sola, e io non fui più in grado di emettere un suono».
Il pubblico come reagì?
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«Si divertirono tutti. Poi calò il sipario e ci ritrovammo lei e io faccia a faccia. E allora non ci fu più niente da ridere. Diventò una furia, mi mollò due ceffoni. Poi mi guardò e, con tutto il suo sdegno, disse sei un guitto».
Severa mamma Concetta
«Quando si lavorava c'era poco da scherzare. Sul palco bisognava essere seri e da tutti pretendeva compostezza, rispetto degli orari e professionalità. Per il resto era una donna dolcissima, buona e molto umana. Quando è venuta a mancare per me è stata dura».
D'altronde la vostra era una vera e propria simbiosi.
«È così. Rappresentava il mio unico riferimento, un rapporto assai intenso, ma il teatro è stato quello che poi ci ha unito in maniera indissolubile. Mia madre ha fatto di me quello che sono».
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Quando avete cominciato a recitare insieme?
«Fu un po' per caso in realtà. Ricordo che entrai a far parte della Nuova compagnia di canto popolare di Roberto De Simone. E fu proprio lui, De Simone, che, a casa mia, ascoltando Concetta che cantava O Sole mio mentre stirava, rimase incantato dalla sua voce e la convinse a tornare in scena».
E fu un successo.
«Strepitoso. Da La cantata dei pastori, dove lei si cimentò in uno straordinario Sarchiapone, a La gatta Cenerentola, raccoglieva solo consensi».
In realtà lei faceva già la cantante.
«Si avvicinò al canto, insieme con le sue sorelle Maria e Nella, che era solo una bambina. Nel pieno della seconda guerra mondiale tutte e tre iniziarono a farsi conoscere battezzando il loro sodalizio artistico con il nome di Trio Vittoria».
Cantavano e suonavano?
«Anche con un bel seguito. Mamma mi raccontava quando tutte e tre affittavano una barchetta a Mergellina, 3 lire da Pascale, e prima si facevano il bagno e poi, nel pomeriggio, cominciavano a cantare».
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Spettacolo a bordo, insomma.
«Scendeva la sera, le barche di pescatori si accostavano e le seguivano per ascoltare la loro voce, le applaudivano e si complimentavano. A quell'ora - diceva mamma - il mare era tutta una fosforescenza, un sogno, veramente un sogno. Ci chiamavano 'a varca che canta».
Show piuttosto insolito per quei tempi.
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«Durante la guerra era già un privilegio trovare un posto dove esibirsi. E loro ci erano riuscite nel migliore dei modi. Poi finalmente la guerra finì e mamma Concetta conobbe mio padre, Giulio Barra, pure lui faceva l'attore. Si innamorarono e si sposarono: quando nacque il mio primo fratello, Gabriele, lei decise di ritirarsi dalle scene e dedicarsi solo alla famiglia. Un ritiro lungo quasi trent'anni».
Una mamma sempre a disposizione, dunque.
«Era molto presente. Quando veniva a giocare con noi tornava bambina. Ce la metteva tutta per farci divertire e ci riusciva perfettamente. Ricordo che una volta mi costruì perfino un teatrino».
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Con le sue mani?
«Soldi non ce ne stavano. Il teatrino lo avevo chiesto alla Befana. Non potendolo comprare, mamma non si perse d'animo e si organizzò da sola. Recuperò una cassetta di legno della frutta, cucì il sipario, disegnò il fondale e poi realizzò pure una decina di burattini: il corpo era di stoffa e al posto della testa ci piazzò i noccioli delle albicocche».
Che fantasia!
«Ironia, umiltà e fantasia. Tre straordinarie qualità che hanno fatto di mia madre Concetta Barra».
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