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    TRAFFICANTI DI CARNE UMANA – A PALERMO SMANTELLATA UN’ORGANIZZAZIONE CHE GESTISCE I VIAGGI VERSO L’ITALIA – ARRIVARE A MILANO COSTA 6.500 DOLLARI, PER IL NORD EUROPA ALTRI 1.500 – UN TRAFFICANTE AL TELEFONO: “IN CASA NE HO 117, DORMONO IN PIEDI”


     
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    1.GESTIVA IL TRAFFICO DI UOMINI CON IL PERMESSO DI SOGGIORNO

    Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera

     

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    La prima parte del viaggio via terra, per arrivare dai diversi Paesi dell’Africa fino in Libia, è la più costosa: da 4.000 a 5.000 dollari. Dai porti che si affacciano sul Mediterraneo, per avventurarsi nella traversata ci vogliono tra i 1.000 e 1.500 dollari. Chi riesce a sbarcare in Sicilia, se vuole andare a Roma o a Milano deve sborsare ancora tra i 200 e i 400 euro, a seconda del mezzo di trasporto: macchina, pullman o treno. Infine, per l’ultima tratta verso la meta agognata — i Paesi del Nord Europa — bisogna pagare cifre che variano dai 500 ai 1.500 euro; dipende dalla destinazione, Germania o Svizzera costano un po’ meno, Svezia o Norvegia sono più care. Il pacchetto completo è offerto a un’unica condizione: pagamento anticipato di ogni tratta, in contanti o attraverso intermediari di fiducia nei due continenti. 

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    È ciò che emerge dall’operazione contro il traffico internazionale di esseri umani conclusa ieri dalla Procura di Palermo con il fermo di 15 indagati sui 24 di cui i magistrati hanno ordinato l’arresto — un paio residenti in Libia da dove organizzano le partenze per l’Italia — al termine delle indagini condotte dal Servizio centrale operativo della polizia e delle Squadre mobili di Palermo e Agrigento. Una vera e propria organizzazione criminale che «svolge una funzione assimilabile a quella di una buona agenzia di viaggi — spiegano i pubblici ministeri Maurizio Scalia, Calogero Ferrara e Claudio Camilleri nel loro provvedimento —, di un efficiente tour operator che assicura l’arrivo nel posto pattuito».

     

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    E ancora: «Le politiche di contenimento dei flussi degli immigrati hanno determinato come effetto collaterale che la criminalità organizzata decidesse di investire risorse sempre più ingenti nella gestione illegale di tali flussi; al divieto di ingressi regolari oltre un determinato numero prefissato, è subito seguita la risposta idonea a superare l’ostacolo». Con l’effetto paradossale che chi sfrutta il dramma della migrazione clandestina appare «dispensatore di speranze» agli occhi degli sfruttati, «strumento principale» per raggiungere il Paese sognato. 


    I trafficanti invece investono in barconi, scafisti, appartamenti dove ammassare uomini, donne e bambini in attesa delle partenze e dello smistamento, mezzi di trasporto sulla terraferma. Come faceva il gruppo appena smantellato dalle indagini della polizia la quale, spiega con un pizzico di orgoglio il neo-direttore dello Sco Renato Cortese, «sa mostrare sia il volto solidale di chi tende la mano ai migranti che arrivano nel nostro Paese correndo rischi enormi, sia quello duro della legge, in grado di colpire chi specula sulle vite umane». 

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    La struttura disarticolata ha la propria base in Libia, dove operano i due latitanti Ermias Ghermay (considerato responsabile del viaggio che portò alla strage di Lampedusa dell’ottobre 2013) e Medhane Mered; in Italia avevano come corrispondente Ashgedom Ghermay (titolare di un permesso di soggiorno in quanto richiedente asilo politico), il quale si avvale di autisti, accompagnatori e fornitori di assistenza per ogni necessità dei migranti disposti a pagare per proseguire il viaggio; a Roma e Milano ci sono altrettante cellule di smistamento verso il Nord Europa, dove i clandestini contano di svelare finalmente la loro identità sia per ottenere «i programmi di inserimento sociale, sia per ricongiungersi a perenti e congiunti». 

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    A questo gruppo di sospetti trafficanti gli inquirenti addebita almeno quindici sbarchi tra la seconda metà del 2014 e quest’anno, con cui hanno condotto in Italia circa 5.000 persone, più un naufragio. Il procuratore Lo Voi assicura: «Le indagini proseguono, anche attraverso la cooperazione internazionale. Abbiamo colpito un’organizzazione, ma ce ne sono molte altre che propiziano il guadagno di enormi somme di denaro ai danni di gente disperata». 

     

    2. RISATE AL TELEFONO

    Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera

     

    Quando gli scattarono la foto per l’identificazione, due anni fa, accennò un mezzo sorriso. Asghedom Ghermay era approdato in Italia dall’Etiopia dopo il lungo e tormentato tragitto che passa dal Sudan, la Libia e poi il mare, fino alle coste siciliane. Arrivò al Centro di accoglienza di Mineo, vicino a Catania, e fece richiesta di asilo politico. Gli rilasciarono un permesso di soggiorno valido fino al maggio 2019. Dunque Ghermay, oggi quarantenne, vive e si muove regolarmente, ma in attesa di essere accolto come rifugiato ha cambiato ruolo: da sfruttato a sfruttatore della disperazione, diventando un trafficante di profughi. 

    IL CENTRO IMMIGRATI DI MINEO IN SICILIA IL CENTRO IMMIGRATI DI MINEO IN SICILIA


    Di questo lo accusano gli investigatori che l’hanno fermato giovedì all’aeroporto di Fiumicino, in partenza per la Germania: è considerato il principale punto di riferimento sull’isola dell’organizzazione che in Libia è retta da un altro etiope chiamato Ermias, identificato dal nome e dai numeri di telefono che utilizza per spostare carne umana dall’Africa in Europa. 


    I poliziotti del Servizio centrale operativo hanno intercettato molte conversazioni tra Ermias e Ghermay. Per esempio quelle del giugno scorso, quando Ghermay dice che non può rientrare nel suo Paese «perché ho iniziato un business qui... mi occupo di prendere le persone che arrivano con le barche»; è in questa occasione che Ermias lo recluta nella sua organizzazione.

     

    Poco dopo ancora Ghermay comunica all’uomo di Tripoli che «c’è molto movimento e le cose stanno andando bene», sono già arrivate due barche e 1.000 migranti quattro giorni prima, «mentre oggi ne è arrivata una di 1.000 persone ma ancora non so di chi è». Spiega che lui va a prendere i profughi con le macchine a Agrigento o Catania, e «organizza i viaggi per Roma, si fanno pagare 150 euro, di questi lui ne guadagna 50 a persona». 

    IL CENTRO IMMIGRATI DI MINEO IN SICILIA IL CENTRO IMMIGRATI DI MINEO IN SICILIA


    Da ciò che trapela nelle centinaia di intercettazioni di cui Ghermay è protagonista, il sistema risulta ben rodato. I trafficanti raccomandano ai clandestini di evitare il fotosegnalamento, ché altrimenti rischierebbero il respingimento dal Nord Europa verso l’Italia. I migranti diventano così «clandestini a tutti gli effetti», che Ghermay e i suoi complici si occupano di far entrare di nascosto nei centri di accoglienza, «coordinandosi telefonicamente per evitare il controllo dell’equipaggio della polizia».

     

    Da lì, sempre di nascosto, vengono fatti uscire dopo aver pagato la nuova tratta e accompagnati alle stazioni di pullman o treni per Roma e Milano, dove due distinte «cellule» dell’organizzazione indirizzeranno i profughi verso Svizzera, Germania, Norvegia, Svezia, Olanda o altri Paesi. Nell’attesa, tenendoli nei campi, «i trafficanti riescono a garantire vitto e alloggio a costo zero per gli stessi», accusano gli inquirenti, il che significa a spese dello Stato italiano. 

    IL CENTRO IMMIGRATI DI MINEO IN SICILIA IL CENTRO IMMIGRATI DI MINEO IN SICILIA


    Parlando con un interlocutore che abita vicino a Francoforte e si offre di lavorare per lui, Ghermay risponde di essere in grado di «mandare direttamente in Germania per 500 (euro, ndr ), mentre in Svezia per 1.100, inoltre li può mandare anche in Svizzera, Inghilterra e Olanda». Oltre che nei centri di accoglienza, l’uomo tiene le persone in attesa di ripartire in una casa di Catania dove, si legge in un colloquio del luglio 2014, «le fa dormire anche in piedi, in questo momento nella casa ne ha 117, ieri ha fatto partire per Roma 40 e 11 per Milano». Non appena arrivano i soldi dei pagamenti, dice, «lui le fa partire subito». 


    I soldi guadagnati in questo modo Ghermay li tiene in banca «e per il momento non li tocca», confida il 4 luglio; altri li investono a Dubai, Ermias invece «li mette in Svizzera e in Israele». Medhane Yehdego — trentaquattrenne eritreo che lavora a Tripoli, moglie e figlio regolarmente registrati all’anagrafe svedese con lo status di rifugiati — il 27 maggio 2014 svela «che ad oggi il suo guadagno ammonta a 170.000 (non specifica la moneta), e pensa di investirli in Canada. Discutono sul fatto che i soldi guadagnati con il traffico è conveniente investirli in America perché lì nessuno chiede la provenienza». 

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    In un’altra telefonata Medhane chiarisce che «lui non ha problemi, l’unico è che ha troppi migranti, quindi spera solo che possano arrivare a destinazione sani e salvi». E quando l’interlocutore gli riferisce che di lui si dice che carichi le barche con il doppio delle persone che potrebbero contenere, ci scherza su. In più occasioni i trafficanti se la prendono con le pretese dei profughi, «sono loro che vogliono partire», mentre Ermias raccomanda a un suo corrispondente di non far telefonare i trasportati, perché c’è il pericolo di intercettazioni: «Noi facciamo un lavoro illegale, non siamo il governo che può aiutare e ascoltare tutti». 


    Ottenere i pagamenti non è difficile «perché loro possono ricevere soldi in qualsiasi Paese», spiega Medhane; l’unica regola è che «non sono ammessi pagamenti posticipati», i migranti sono costretti a rimanere nelle case o negli altri luoghi di raccolta finché non sborsano i soldi necessari per la tratta successiva. 

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    Quando invece le barche non arrivano a destinazione e i profughi muoiono, ci si rammarica per i mancati guadagni sul seguito dei viaggi. Di naufragi nascosti, mai contabilizzati ufficialmente, ce ne sarebbero diversi. In una conversazione di fine luglio Ghermay ammette di essere preoccupato «in quanto di un’imbarcazione non si hanno più notizie, c’erano 260 persone e sono partiti 11 giorni addietro». Un mese dopo, fine agosto, rivela che «qualche giorno fa hanno organizzato un viaggio di altre persone, ma non sanno che fine hanno fatto, probabilmente sono morti». 


    A maggio, Medhane racconta a un presunto complice «di avere saputo che la barca affondata qualche giorno fa, con morti, era di Abdelrezak», altro trafficante noto agli investigatori, e c’erano molti profughi provenienti dalla regione eritrea di Senafe. Ne deriva una seccatura: Medhane «spiega di essere molto pressato da connazionali di quella regione perché non sanno se i loro familiari sono morti annegati oppure sono in carcere».

     

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