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    “SEMBRAVA UN COLPO DI STATO, C’ERA SANGUE DAPPERTUTTO” – LA NOTTE DELLA DIAZ NELLE PAROLE DI UN GIORNALISTA PRESENTE ALLA MATTANZA: “CALCI E MANGANELLATE SELVAGGE SU GENTE CON LE MANI ALZATE, SANGUE CHE SCHIZZA, TESTE SPACCATE, URLA E PIANTI”


     
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    Pierangelo Sapegno per “Oggi

     

    sangue pavimento diaz sangue pavimento diaz

    «Poi è arrivato un altro poliziotto. Lo vedevo in faccia sotto il casco, perché non aveva un fazzoletto che la nascondeva. Io ero sdraiato a terra, gemevo, in condizioni pietose. Avevo male dappertutto, la gamba destra non riuscivo più a muoverla, le braccia erano inermi, sanguinanti, con lacerazioni e gonfiori, bozze grosse come palle da golf. Ci dicevano: “Nessuno sa che siamo qui, possiamo fare di voi quello che vogliamo”. Era vero. Il dolore e la paura. E quel poliziotto, quello, fu la cosa più terribile...»

     

    Lorenzo Guadagnucci adesso è alla sua scrivania della Nazione, a Firenze. Redazione economia di QN, il Quotidiano Nazionale. Allora, luglio 2001, era giornalista del Carlino, a Bologna. Si occupava di economie alternative, con tutto l’entusiasmo dei neofiti. Era stato al primo forum sociale mondiale di Porto Alegre. Ma questa volta il giornale non l’aveva mandato al G8 di Genova: era più una notizia di politica, di esteri.

     

    poliziotti diaz poliziotti diaz

    Così ci andò per conto suo, nel giorno libero. Non trovò un buco per dormire. Tutti gli alberghi erano pieni. Non se ne preoccupò: «In via Battisti, dove c’è la scuola Diaz, c’era il Centro Stampa. Andai lì a lavorare, a prendere documenti e relazioni, e pensai che un posto comunque lo avrei trovato. Chiesi ai colleghi stranieri, e mi dissero: “Vai di fronte. Quella scuola, la Diaz, fa da dormitorio”».

     

    È cominciato così l’incubo di Guadagnucci. Che lo ricorda oggi, a 14 anni di distanza, dopo la sentenza della Corte europea che riconosce: a Genova i poliziotti commisero il reato di tortura. Dopo la cena Guadagnucci sistemò le sue cose in un angolo della palestra a pianterreno. Vicino a lui c’erano due tedeschi, un ragazzo e una ragazza. Era stanco e si addormentò subito. A mezzanotte però lo svegliarono rumori molto forti che venivano dalla porta. La stavano sfondando.

     

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    «Ho aperto gli occhi e mi sono seduto nel sacco a pelo. Non mi sono alzato. Sono entrati i poliziotti con caschi, divise scure, manganelli. Una scena pazzesca: correvano e picchiavano in maniera molto violenta tanta gente inerme, che dormiva o chiacchierava, avventandosi sulle persone con una furia cieca. Mi ricordo tutta questa gente con le mani alzate, che urlavano “No violence” e quelli che li pestavano senza nessun tipo di comunicazione.

     

    Calci e manganellate selvagge, sangue che schizza, teste spaccate, e urla e pianti. C’era tanta gente che chiamava la mamma in tutte le lingue del mondo. Io sono di fronte all’ingresso, nell’angolo alla sinistra. Vengono due poliziotti verso di me. Ripensandoci ancora adesso, io non capivo quello che stava succedendo. Forse era lo choc che mi impediva di capire.

     

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    Era tutto così assurdo. Il primo dei due poliziotti si avvicina e fa partire un calcio violentissimo alla faccia della ragazza tedesca. Io faccio per avvicinarmi a lei per aiutarla. E a quel punto parte una gragnuola di colpi contro di me. Ho sollevato le ginocchia per ripararmi la testa, coprendola con le braccia. Non so quant’è durato.

     

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    Le braccia sono squarciate, letteralmente squarciate, con delle grosse bozze. Il ginocchio fa un male terribile. Quei due poliziotti si sono allontanati continuando a picchiare altri. Quando questa mattanza è finita, noi eravamo sdraiati nel nostro sangue. Loro continuavano a minacciarci, a urlare che potevano fare di noi quello che volevano. Era vero, incredibilmente vero.

     

    «NON CAPIVO, PENSAVO A UN COLPO DI STATO»

    «Ho pensato a un colpo di stato. Doveva essere successo questo. È quello che accade quando c’è un golpe. Ed è in quel momento che è partito un terzo agente di un altro reparto: aveva una camicia bianca e un pettorino senza maniche con scritto “Polizia”. Potevo vederlo in faccia. Avanzava menando dei colpi sui feriti con grandissima foga.

     

    fabio tortosa porta fuori dalla diaz von unger oggi avvocato fabio tortosa porta fuori dalla diaz von unger oggi avvocato

    C’era solo gente che piangeva per terra, che invocava la mamma, c’erano due ragazzi ormai incoscienti, altri gravissimi. Questo li picchiava tutti. Venne da me e mi colpì da dietro, le spalle e i fianchi, con una violenza esagerata. La mia schiena era tumefatta. Mi sono ritrovato una crosta perfettamente circolare e il dermatologo poi mi disse che “quella era sicuramente una bruciatura o una scossa elettrica”. Era una scossa. Aveva un manganello elettrico». Dopo il pestaggio, sono rimasti due ore nella palestra, senza alcun soccorso. La parte peggiore, dice Lorenzo, è stata questa.

     

    «PERDEVO MOLTO SANGUE, VEDEVO LA MIA CARNE»

    «Nessuno di noi aveva capito che cos’era successo. Ti hanno pestato a sangue senza un motivo, non ti hanno chiesto un documento, niente. Non puoi chiedere aiuto a nessuno perché sono proprio questi che ti stanno massacrando, quelli a cui dovresti chiederlo. Pensi che ti ammazzeranno. Tutti l’abbiamo pensato. Anch’io. È una tortura psicologica. E continuavano a farci del male. Davano ordini: “I feriti tutti da una parte!”.

     

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    Io perdevo sangue, molto sangue, avevo una gamba e le braccia inutilizzabili, e vedevo le mie braccia deformate, vedevo la carne viva, ma ho dovuto trascinarmi per andare da una parte all’altra. Nessuno di loro mi ha aiutato. Qualcuno rideva. Una ragazza mi ha detto: guarda, bisogna che ti tamponi la ferita, levati la maglia e stringela attorno. Io le dissi: non ce la faccio. Lei mi diede il suo foulard. E io continuai a strisciare.

     

    Quelle due ore sul piano della tortura sono state le più drammatiche. C’era una ragazza in crisi epilettica e loro ridevano. Davvero. Era odio senza senso, una deformazione violenta e ancestrale del potere. Io lì ho capito che cosa vuol dire la paura di morire, l’impotenza più totale. Non ci hanno chiesto i nomi, niente. Non è che ti arrestavano. E quando dicevano “possiamo fare di voi quello che vogliamo”, sembrava una promessa di morte...

     

    «Dopo due ore è arrivato un infermiere. Uno solo. È rimasto sotto choc, s’è trovato decine di persone che non potevano muoversi per le ferite, due ragazzi in coma, teste spaccate, sangue dappertutto, tanto sangue. È andato via. Dopo un po’ torna con altri infermieri e un medico. Fanno visite molto sommarie per organizzare il trasporto in barella. Vado da lui e il dottore dice: “Queste braccia sono rotte. Tutt’e due”. All’infermiere: “Steccagli le braccia”. Ma non hanno dietro il materiale necessario. Prendono due cartoni e li stringono avvolgendoli con della garza.

     

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    «POI ALL’OSPEDALE MI HANNO ARRESTATO»

    «Mi mettono in barella. Ricordo di aver visto il regista Paolo Pietrangeli mentre mi portavano fuori, e di averlo chiamato. Ero lucido, ma nello stesso tempo ero in trance. Non realizzavo quello che succedeva. All’ospedale mi fanno raggi, ecografie, ricuciture e a un certo punto un infermiere si avvicina e mi dice: guarda che ti arrestano.

     

    Ebbi un crollo psicologico. In quelle condizioni mi sembrava la cosa più devastante. Mi viene accanto un carabiniere: “Siete sporchi, fate schifo”, mi dice. Ma cosa vi ho fatto io?, cosa ho fatto di male? E lui insiste: “Vi hanno trattato sin troppo bene”. Poi mi portano in camera e mi ritrovo due poliziotti: “Siamo qui per te, sei in arresto”.  Ma adesso non è più come prima. Questi sono normali. Gli chiedo: per cosa? “Non lo sappiamo, a noi ci hanno detto di fare la guardia”.Uno di questi, avrà avuto la mia età, 25 anni, dice: “Vado giù a chiedere”. Aveva capito di non avere di fronte un terrorista. Torna su sconsolato: “Boh, non hanno saputo dirmi niente”.

     

    «SALTATA OGNI REGOLA, NON C’ERA PIÙ LEGGE»

    Genova G8 Genova G8

    «Erano saltate tutte le regole. Non c’era più diritto. I motivi dell’arresto li leggo il giorno dopo sul Corriere della Sera: c’era scritto per porto d’armi da guerra, resistenza a pubblico ufficiale e associazione a delinquere. Non c’era neanche una cosa non dico vera, ma verosimile. E c’era scritto che sarei stato trasferito nel carcere di Alessandria».

    Solo che Lorenzo è conciato così male che i medici lo impediscono: c’è pericolo di emorragie e deve fare continue ecografie.

     

    Arriva l’interrogatorio col magistrato, Anna Canepa. Finalmente Lorenzo può raccontare la verità. C’è però un incubo che lo perseguita. Il terzo poliziotto, quello che infieriva sulla gente che stava anche per morire.

     

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    Durante quelle due ore in palestra, lui l’aveva seguito con lo sguardo, quello s’era tolto pure il casco. Aveva il collo grosso ed era pelato. Poi quando lo portano via in barella è vicino a lui, che dà ordini: dev’essere un capetto. Parla in napoletano. I giudici gli fanno vedere dei filmati. Lo riconosce: eccolo, è lui. Bene, almeno lo faranno fuori. La Polizia non può avere gente così. Il magistrato ha avviato la pratica per identificarlo. «Ma la Polizia si rifiutò di dire chi era», dice Guadagnucci.

    Resta un incubo senza nome. Come capita con le dittature più feroci, quando dopo ritrovi gli aguzzini che fanno rispettare la legge. Gli incubi hanno solo i volti.

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