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    SERIE DA PRENDERE SUL SERIO – ANCHE FRECCERO OGNI TANTO NE IMBROCCA UNA: DOPO AVER LOTTATO INVANO PER AVERE “LA CASA DI CARTA”, SI CONSOLA CON “IL MOLO ROSSO”, THRILLERONE DA PRIMA SERATA DELLO STESSO AUTORE (ALEX PINA) E CON LO STESSO PROTAGONISTA (ALVARO MORTE) – È TUTTO UN MESCOLARE E RIMESCOLARE, QUINTESSENZA DELLA TV DEL SUD EUROPA CHE SCIMMIOTTA I CUGINI PIÙ BRAVI, MA CON TALENTO E UNA DISCRETA VISIONE. SOPRATTUTTO, È PERFETTA PER UN CANALE GENERALISTA E PER IL PUBBLICO CHE HA IN MENTE “MARLON”


     
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    Gianmaria Tammaro per Dagospia

     

    CARLO FRECCERO CARLO FRECCERO

    Diamo a Freccero quel che è di Freccero: su Alex Pina, creatore de “La casa di carta”, ha sempre avuto ragione. È stato uno dei primi, insieme a Netflix, a credere in quello che scriveva, produceva e immaginava. Ha lottato – così dice la leggenda – per avere “La casa di carta”, l’ha consigliata, suggerita, praticamente imposta a tutti quelli che gli stavano attorno, ma non ce l’ha fatta; ora ci riprova con “Il molo rosso”, in onda su Rai2, in prima serata, dal 3 aprile. Insieme a Pina – co-creatore con Esther Martínez Lobato – c’è anche Alvaro Morte, che ne “La casa di carta” interpreta il Professore.

    alex pina alex pina

     

    Quando questa serie è stata annunciata, il fenomeno “Casa di carta” doveva ancora scoppiare; più o meno due mesi prima dell’arrivo della serie spagnola su Netflix, era stato divulgato che Morte e Pina avrebbero lavorato di nuovo insieme, e il resto, poi, è diventato storia.

     

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    “Il molo rosso” parte da un’idea vista e stravista – marito morto che conduceva due vite; la moglie, qui interpretata da una bravissima Veronica Sanchez, deve fare i conti con la realtà – e prova a farla diventare qualcosa di più: l’aspirazione di Pina di creare un racconto internazionale, che ammicchi agli americani, che non sia da meno a quello che il mondo anglosassone produce, si mischia – a tratti brillantemente, a tratti meno – con la tradizione spagnola, con un certo modo di intendere e di fare televisione (e cinema, anche); ne viene fuori una serie con picchi narrativi interessanti e, allo stesso tempo, ancora tanto, profondamente legata a una visione di parte, mediterranea, del piccolo schermo (le scene urlate, quelle esagerate e il pericolo overacting sono sempre dietro l’angolo).

     

    LA CASA DE PAPEL LA CASA DE PAPEL

    Ne “La casa di carta”, la sensazione è sempre stata quella di qualcuno che prova a rifare, a raccontare con parole diverse, una storia che qualcun altro – gli americani, cioè – aveva già raccontato. Qui, in parte, questa fastidiosissima sensazione si evita, e il risultato finale è un thrillerone da prima serata, perfetto per un canale generalista, che sa su cosa, e chi, puntare. Lui, Morte, il Professore, c’è e non c’è; e questo, volendo, è una cosa importante. Perché aiuta la storia a trovare la sua strada e a non affidarsi troppo al divo.

     

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    Una delle due protagoniste l’abbiamo citata: è la Sanchez, che interpreta “Alex”, cioè Alejandra, architetta di successo che ha appena concluso, quando la conosciamo, un affare multimilionario (311 milioni di euro, per essere precisi: una roba che sì, si sente solo nella tv americana). Poi c’è lei, Veronica, interpretata da Irene Arcos: innamoratissima di lui, del morto, Oscar Leon, protagonista di video e foto che vediamo fin dall’inizio, dalla primissima carrellata dei primi dieci minuti, quando la camera le risale la schiena e i fianchi nudi.

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    La prima parte della prima puntata è tutta così, di presentazione: siamo in una Spagna molto europea, poco calda (dipende: se seguiamo Alex sembra più fredda, più nitida; se seguiamo Veronica è piena estate, primavera, piante in fiore), più vicina a uno stato dell’ovest del nord America che, banalmente, a un paese mediterraneo. Ci sono grattacieli, luci, moli – eccolo – sospesi in pozze d’acqua immense, che ricordano gli Ozarks.

     

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    È tutto un mescolare e rimescolare, è la quintessenza della televisione di giù, cioè del sud dell’Europa, che prova a farsi grande, a scimmiottare i cugini più bravi – di nuovo: gli americani – e che in qualcosa, in questo caso, nel caso de “Il molo rosso”, riesce anche a dimostrare d’avere talento e una discreta visione. Ma per l’idea frecceriana – ci perdonerà la Crusca – questa serie è, lo ripetiamo, perfetta. Per lui, per il pubblico che ha in mente, e anche per la Rai2 che sta provando, a mozziconi, a tirare su. Di nuovo, davvero, diamo a Freccero quel che è di Freccero. Almeno per stavolta.

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