Gianmaria Tammaro per Dagospia
jessica jones terza stagione 13
Finalmente “Jessica Jones” è finita. Non ce ne vogliano i fan, ma così, con questo confusissimo avanti-e-indietro, tra casi sempre uguali, storie identiche e colpi di scena telefonatissimi, non si poteva andare avanti. E pensare che all’inizio, all’alba delle serie Marvel su Netflix, “Jessica Jones” era la migliore. Perché c’era stata un’intuizione fondamentale, che poi, purtroppo, si è persa. I superpoteri di Jessica erano solo un pretesto, un modo per selezionarla e per metterla al centro della scena. La vera storia era il suo passato, i soprusi e gli abusi che aveva subito, e il suo arcinemico, Killgrave, interpretato da uno straordinario David Tennant, che con il suo potere di controllare la mente le aveva fatto fare cose terribili e inenarrabili.
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“Jessica Jones”, insomma, era la storia di una ragazza che prova a liberarsi del suo persecutore e che prova a riprendere il controllo della sua vita. Poi, durante la seconda stagione, con l’influenza di S. J. Clarkson – primissima regista, primissima produttrice – ormai sfumata, ogni cosa ha cominciato a perdere consistenza e credibilità. Quella chimica straordinaria, fatta d’immedesimazione e di empatia, tra spettatore e personaggio, non c’era più. E “Jessica Jones” ha iniziato a trascinarsi. Sui gomiti, china, senza la forza di rialzare la testa.
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Non aveva le coreografie spettacolari di “Daredevil” (anche in questo caso la stagione migliore è stata la prima), e non aveva nemmeno tutto il sotto testo razziale – abbastanza ridondante, va detto – di “Luke Cage”. Jessica era diventata improvvisamente un’eroina, una con super-problemi certo, anche abbastanza incasinata, ma niente a che vedere con i fasti – narrativi e drammaturgici – dell’inizio.
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Questa terza stagione ha definitivamente chiuso un capitolo: quello delle serie Marvel su Netflix, prima di tutto (con Disney+, la piattaforma di Disney, in arrivo, era abbastanza prevedibile che tutte le proprietà intellettuali tornassero a Topolino); e quello di Jessica. C’è stato un momento, anni fa, in cui tutti credevamo – anzi, di più: speravamo – che le serie come questa potessero finalmente rappresentare un passo avanti nella narrazione dei supereroi. Perché sì, va bene: gli “Avengers” del cinema sono fenomenali. Ma l’ago della bilancia, in quel caso, è sempre piegato verso la commedia, con pochissimi picchi drammatici.
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Con le serie tv, invece, c’era la possibilità di approfondire personaggi e background, e di dotare anche figure minori – come i “Defenders” – di una certa riconoscibilità. “Jessica Jones”, con l’interpretazione di Krysten Ritter, perfetta nel ruolo dell’orfana sopravvissuta a un incidente mortale, con i sensi di colpa e un’asocialità cronica, era entrata di diritto tra i titoli meglio scritti.
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Aveva un grande, grandissimo potenziale. Ma poi, sorprendentemente, produzione e sceneggiatura hanno cominciato ad auto-sabotarsi, a diventare prevedibili, a inseguire le serie più mainstream, quelle che andavano – e vanno – in onda sui canali generalisti americani.
C’era qualcosa, chiaramente, che Netflix e i suoi non potevano fare: dare alla Marvel una voce diversa, fuori dalle righe, fatta di violenza, sangue e dolore. E quindi basta. “Jessica Jones” e tutti gli altri andavano soppressi nella culla. Ci è voluto tempo, ci è voluto sacrificio, e ci è voluto anche un certo sforzo per inimicarsi tutti i fan che si erano lasciati convincere.
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Oggi, alla fine di un’era, resta ben poco. La stessa “Jessica Jones” non è che un’ombra rispetto al passato, ed è un peccato. Un vero peccato. La terza stagione, come e più della seconda, è dimenticabile. Poteva essere il canto del cigno; poteva essere la possibilità di recuperare, di prendersi finalmente una rivincita, d’approfittare della fine per dire tutto quello che c’era da dire, e per farlo nel modo giusto. E invece no, è stata la solita solfa: lei antipaticissima (ma non davvero, per carità) contro un mondo d’infami e di stronzi (così, per partito preso) che meritano comunque d’essere salvati.
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