Gianmaria Tammaro per Dagospia
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“Good Omens”, il libro di Neil Gaiman e Terry Pratchett, è uno dei più divertenti e dissacranti che siano mai stati scritti. Sottile, cinico, molto, molto british. Usa la fine del mondo come una metafora: se ci odiamo, c’ammazziamo; e se c’ammazziamo, arriviamo alla fine di tutto, d’ogni cosa, all’Armageddon.
Quando uscì, e parliamo di quasi trent’anni fa, il muro di Berlino era appena caduto, e la nebbia della guerra fredda non si è era ancora dissolta del tutto. Era un libro di quel tempo e oggi, grazie alla bravura di Gaiman, è diventato una serie di questo tempo. “Good Omens”, da domani su Amazon Prime Video, è tutto quello che doveva essere: è una comedy, è un drama; ha due attori eccezionali per protagonisti, David Tennant e Michael Sheen; ha tantissime comparse e camei (uno su tutti: Frances McDormand che fa la voce di Dio), e una regia intelligente, di un veterano del piccolo schermo inglese, Douglas Mackinnon (“Doctor Who”, “Sherlock”).
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La storia è: ci sono un angelo e un demone; diventano amici, si conoscono fin dai primissimi giorni della storia umana; vivono sulla Terra in incognito, in mezzo alle persone, e finiscono, per loro stessa ammissione, per sentirsi parte del loro mondo. Crowley, interpretato da Tennant, è un appassionato di musica, adora le auto veloci, s’adegua ai tempi. Aziraphale, interpretato da Sheen, è un angelo che ama mangiare, che veste sempre alla stessa maniera, e che colleziona – e vende, e cura – libri.
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Sono due esseri celestiali, eppure sono più umani degli umani stessi. E tutto il segreto di “Good Omens”, forse, sta proprio qui: nella rappresentazione dell’imperfetto, dell’incerto; nel dimostrare che solo bianco e nero, o solo buono e cattivo, non funzionano. Il bello sta nei contrasti, nelle sfumature, negli infiniti grigi.
Quando l'Anticristo arriva sulla Terra, Crowley e Aziraphale fanno coppia per salvare il mondo. Perché, dicono, affrontare l’eternità senza vino sarebbe una vera tortura. Nel giro di sei episodi, dovranno: rintracciare il bambino che porterà la distruzione, avvicinarlo, conoscerlo, e intanto fare i conti con antiche profezie, streghe e cacciatori di streghe, suore sataniste, estremisti infernali e estremisti angelici.
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Tra i co-protagonisti c’è anche Jon Hamm. Il suo Arcangelo Gabriele è, per dirla con una sola parola, un idiota. Non sa che cosa sta facendo, non sa perché lo sta facendo; è il tipico capo che tutti hanno e che tutti, puntualmente, odiano. E in questa gestione così aziendale del paradiso (e, anche, dell’inferno), c’è un’altra chiave di lettura di “Good Omens”: la filosofia del “fare, fare, fare” non funziona. Questo mondo, con quest’idea di consumismo viscerale, non va. Forse lo capiremo. Forse, molto più probabile, no. Ma dirlo con una battuta è molto più efficace di dirlo con saggetto di cinquanta pagine, scritte sull’onda del pessimismo.
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“Good Omens”, va detto, pecca in alcune cose. Quando non ci sono Tennant e Sheen sullo schermo, per esempio, tutto diventa più lento e impastato, e lo spettatore fa fatica a seguire la storia e il suo svolgimento. Ma, ecco, niente è lasciato al caso. E anche di questo bisogna dare atto a Gaiman. Gli effetti speciali, che sembrano macchinosi e legnosi e finti, sono stati volontariamente scelti così. Per dare un’idea precisa – un po’ cartoonsca, un po’ fumettosa, sempre profondamente fantasy – al pubblico.
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“Good Omens”, poi, proprio come il libro, è uno show che affonda le sue radici profondissime nell’inglesità: e quindi c’è Londra e c’è il Regno Unito, c’è l’ironia british, un po’ fuori dai denti e un po’ sibillina, e c’è anche una marea di richiami alla comicità più tradizionale, come quella dei Monty Python. Ci troviamo davanti a uno dei pochissimi casi dove l’adattamento tv – non supera, no, ma – eguaglia il libro.
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E ci riesce perché è un’altra cosa, perché abbraccia il linguaggio totalmente diverso del piccolo schermo, e perché non tradisce le aspettative. Gaiman – e tutti quelli che hanno lavorato con lui, a cominciare da Amazon e BBC – sapevano che lo spettatore, proprio come il lettore, non va preso in giro. E “Good Omens” fa proprio questo: rispetta chi c’è dall’altra parte del televisore (o del tablet o dello smartphone); non ride di lui (o di lei), ma ride insieme a loro.
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