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LA STAMPA TEDESCA ATTACCA
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La Sueddeutsche proprio non molla Sinner. Il caso di doping doveva tenere l’italiano lontano dai campi, almeno durante il periodo del processo. Ha vinto gli Us Open, merito a lui – scrive il quotidiano tedesco – ma la verità è che non doveva nemmeno giocare. Questo il senso dell’articolo in cui la Sueddeutsche si complimenta con il vincitore dello Slam ma mette i “suoi” puntini.
Sinner doveva essere squalificato secondo la Sueddeutsche
Scrive la Sueddeutsche:
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“La vittoria degli Us Open Jannik Sinner merita grande rispetto dal punto di vista sportivo. Il 23enne altoatesino ha vinto in modo impressionante. I suoi colpi da fondo campo ricordano sempre più i giocatori di ping pong che stanno vicino al tavolo e colpiscono le palline. Il suo dritto è mozzafiato. Pertanto ogni elogio nei suoi confronti è giustificato – bisogna solo aggiungere una piccola, non del tutto insignificante nota a piè di pagina: Jannik Sinner in realtà non avrebbe dovuto giocare affatto a New York.
Sinner è stato molto veloce nel presentare la fonte della sua contaminazione (il massaggiatore, ndr) con la sostanza proibita, cosa che potrebbe avergli fatto risparmiare una squalifica. Tuttavia, c’era nel corpo di Sinner una sostanza illecita. Non importa che la quantità di Clostebol era solo “0,000000001 per cento”.
E il quotidiano tedesco torna alla domanda di partenza:
un atleta professionista che ha assunto una sostanza vietata, può essere trattato allo stesso livello degli atleti puliti? Un tribunale indipendente è giunto a un rapido verdetto: sì, può. Ed è proprio questo l’aspetto discutibile di questo caso spettacolare, la cui responsabilità in realtà è delle autorità coinvolte. Sarebbe stato opportuno, ad esempio, un’interdizione da quattro a sei mesi e almeno un’interruzione forzata durante il procedimento“.
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SINNER
Gaia Piccardi per corriere.it - Estratti
Un grande albergo del centro, di fronte al MoMa.
Nella suite all’ultimo piano ci sono ancora i palloncini tricolori: domenica sera Jannik Sinner ha festeggiato qui il trionfo all’Open Usa, con Anna e il team. Una celebrazione privata e sobria, da campione riservato. Da New York è volato a Milano: andrà a casa, in Alto Adige, dai genitori e dalla zia malata a cui ha dedicato l’impresa americana. Per la Davis, a Bologna, da tifoso, si vedrà. Prima, il racconto di un’avventura straordinaria.
Crede nel destino o pensa che le cose accadano per caso, Jannik. E se pensa che ciascuno di noi abbia la sua storia, come si spiega i picchi e gli inciampi (il caso Clostebol, da cui è stato prosciolto)?
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«Io credo che quando uno è una brava persona, qualcosa di buono prima o poi arriva.
Ci credo molto. Quando sono in auto a New York o Miami, in una grande città insomma, guardo fuori dal finestrino e mi chiedo: chissà cosa fa quella persona nella vita. Mi piace ragionare su certe cose. Sì, credo in un destino, sia positivo che negativo».
Un destino che le riserva una vittoria importante dopo un periodo complicato.
«La vicenda è ancora nella mia mente, non ne è uscita. Ho cercato di rimanere concentrato sul torneo sentendomi supportato dalle persone che mi vogliono bene, e ormai il mio team mi conosce meglio dei miei genitori. Mi sono molto legato ai miei coach. Credo di aver fatto un buon lavoro ma non è che mi sono dimenticato di quello che è successo. Non è passato».
(...)
La dedica alla zia malata era sentita.
«Mi è venuta al momento: non sono uno che si prepara i discorsi, sono piuttosto istintivo. La zia era — cioè — è una persona molto importante per me. Da piccolo i miei lavoravano tutto il giorno e io trascorrevo molto tempo con lei: mi accompagnava alle gare di sci, passavamo l’estate insieme. Sono cose che mi fanno vedere lo sport in modo diverso: il tennis non è la vita. Non solo. Vorrei spendere più tempo con le persone che amo però la vita non è sempre perfetta, purtroppo».
Non lo sono nemmeno io, ha detto nei giorni del torneo.
«Non sono un tennista perfetto, e mai lo sarò. Avevo delle mancanze fisiche: ho cercato di compensarle in palestra. Per me la cosa importante è giocare a tennis, riposare bene, lavorare per migliorarmi. Vorrei finire la carriera senza rimpianti, poter dire: hai fatto il possibile, hai dato tutto. I risultati, in fondo, sono la conseguenza dell’impegno».
Scoprire che c’è una vita fuori dallo sport, il bacio in mondovisione ad Anna. Sono conquiste importanti anche queste.
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«Io mi impegno per alzare coppe come quella dell’Open Usa. Ma è anche importante circondarsi di persone che ti accettano per quello che sei, e che ti vogliono bene».
Con Carlos Alcaraz nel 2024 vi siete divisi gli Slam. È finita l’era dei Big Three?
«Aspettiamo a dire che è iniziata l’era dei Big Two: una stagione non basta. Sono contento di fare parte di questo potenziale chissà-cosa ma non puoi mai sapere cosa succede, ci sono tanti giocatori che possono fare bene.
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È inutile parlarne adesso. Djokovic, per esempio, all’Olimpiade ha vinto l’ultima cosa che gli mancava ed è motivatissimo per il futuro. Però è bello vedere nuovi campioni e nuove rivalità. Con Carlos ci spingiamo a vicenda, rendendoci migliori. Il lavoro non finisce mai. Solo chi vive con me sa cosa ho attraversato in questi mesi. Una vicenda che mi sono impegnato ad accettare.
Poi ho cercato di divertirmi ma era tutto diverso da prima. Per fortuna ho un equilibrio che mi aiuta e l’Open Usa ha contribuito a farmi ritrovare il piacere del tennis».
Riesce a godersi il momento in una vita a cento all’ora?
«Se non ti godi il momento, è tutto inutile. Te lo devi godere. E poi devi staccare: adesso mi serve qualche giorno di riposo e relax. Ma sappiamo già dove ricominceremo a lavorare. Con Fritz, in finale, ho notato due o tre cose che potevo fare meglio…».
Cinque match persi su 60 giocati fin qui. Le piace cercare il pelo nell’uovo.
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«Se vincessi sempre sarebbe difficile rendersi conto quanto è duro farlo: sembrerebbe tutto normale. E invece non lo è. Non dipende tutto da me: se domani rigiocassi con Fritz, e non servissi meglio di come ho fatto domenica, ci può stare che perdo. Per come sono fatto, io mi ricordo di più le partite perse di quelle vinte perché così capisco da dove devo ricominciare ad allenarmi. Non sono una macchina. Non funziono a batterie: prima o poi mi svuoto. Ecco perché sono importanti la programmazione, la gestione, il team, il recupero».
La squadra che ha messo in piedi aspetta i nuovi ingressi dopo Ferrara e Naldi, preparatore e fisio, però funziona.
«Presto saprete le novità. Io non posso permettermi di cambiare: se cambio, perdo la mia identità. E non voglio. Ho fatto tanti sacrifici per arrivare fino a qui. Da quando è uscita la notizia forse si è capito perché sono stato male e ho avuto notti senza sonno.
Però sono cresciuto anche grazie a questo, lo sento».
La scommessa con i coach?
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«Eravamo a Montreal, in Canada. Se nello swing americano arrivo almeno in una finale, ci siamo detti con Simone e Darren, mi regalate la PlayStation 5...».
Sono arrivate due vittorie: a Cincinnati e New York.
«Eh, ora infatti ne riparliamo!».
E lei come si è gratificato?
«Mi sono seduto a tavola con il mio team e mi sono mangiato un hamburger con la Coca-Cola».
Anni fa era convinto che l’Open Usa sarebbe stato il primo Slam conquistato.
«Ho sempre pensato che la superficie di Flushing mi si addice. Poi nel 2022 avevo perso con Alcaraz sprecando il match point e l’anno scorso in cinque set con Zverev. L’aspetto mentale ha avuto un ruolo fondamentale per tutto il torneo. A me la pressione piace: quando non ce l’ho, mi manca. È una bella posizione in cui essere, insomma».
Il commento più bello?
«Una frase di Darren prima della finale: Jannik, sii orgoglioso di quello che fai. E poi mi ha chiesto: sai chi sono le persone più fiere di te in questo momento? I tuoi genitori.
Ho avuto un brivido. Sono momenti che vanno oltre il tennis».
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Due Slam in una stagione: se lo immaginava, da bambino, a Sesto Pusteria?
«È tutto abbastanza sorprendente. Nella posizione in cui ero, prima dell’Open Usa non avevo aspettative. Il tempo passa così veloce: ricordo la mia prima partita a New York nel tabellone principale, nel 2019 con Wawrinka. Persi ma per la prima volta entrai nei top 100. Pensai: che bello… Certe cose da lì in poi sono arrivate veloci, altre no. Sono giovane: a 23 anni non ho massimizzato tutto. Posso ancora crescere, devo farlo».
Cosa c’è dietro l’angolo: cosa le riserva il destino, Jannik?
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«È stata una grande avventura, fino ad oggi non mi sono mai fermato, non ho avuto mai il tempo di prendermi un attimo per dirmi: bravo, hai fatto un buon lavoro. Ci sono state voci diverse sulla mia vicenda, non posso farci niente. Ma chi mi conosce, sa. E per me è l’unica cosa che conta».
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