Nando Pagnoncelli per il Corriere della Sera
Due anni fa, in questi giorni, la stragrande maggioranza degli italiani era ignara di quanto sarebbe successo nel breve volgere di qualche settimana con l'adozione del lockdown che certificò la gravità del virus e fece impennare la preoccupazione dei cittadini dal 12% di metà febbraio al 52% di metà marzo. Da allora in poi il sentimento di minaccia ha fatto segnare oscillazioni in linea con l'andamento dei contagi e dei decessi.
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Oggi il 29% è molto o abbastanza preoccupato di poter contrarre il Covid. Il dato è in diminuzione di 10 punti rispetto a gennaio quando la variante Omicron aveva raggiunto l'apice dei contagi. L'inquietudine è abbastanza trasversale con qualche accentuazione tra le persone meno giovani, tra le casalinghe, i pensionati e i disoccupati e tra coloro che risiedono nelle regioni centrali e meridionali. Anche il pronostico che gli italiani esprimono riguardo all'uscita definitiva dall'emergenza fa segnare un miglioramento, in media da poco più di un anno e mezzo a 15 mesi.
Queste risposte ci aiutano a comprendere i motivi della permanente prudenza largamente diffusa nella popolazione. Già nelle scorse settimane avevamo dato conto del consenso molto elevato riscosso dall'obbligo vaccinale per gli ultracinquantenni disposto dal governo e dal super green pass. Oggi registriamo l'assoluta stabilità degli atteggiamenti nei confronti del green pass (66% favorevoli). Insomma, prevalgono cautela, buon senso e la convinzione che non si debba abbassare la guardia perché si teme l'agguato di possibili nuove varianti.
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L'irruzione del Covid ha stravolto le nostre vite e le nostre abitudini. Le ricerche più recenti evidenziano la fatica e il disagio vissuti dalle persone a seguito delle misure adottate per contenere i contagi, due delle quali sono state analizzate nel sondaggio odierno, ossia la didattica a distanza e lo smart working. Iniziamo dalla scuola. A due anni dall'introduzione di questa modalità «emergenziale» di insegnamento, gli atteggiamenti dei cittadini sono piuttosto articolati: il 51% ritiene che la dad sia dannosa anche se può essere necessaria in qualche caso, il 15% la stronca senza appello, considerandola sempre dannosa e da evitare assolutamente, mentre uno su quattro (24%) non la reputa affatto dannosa, a condizione che venga ben gestita dalla scuola e dalle famiglie. Tra i genitori che hanno avuto figli in dad negli ultimi mesi si accentua maggiormente l'idea che sia dannosa, sia pure nella consapevolezza che in taluni casi non si possa farne a meno. In generale, i genitori di figli frequentanti la scuola primaria e la secondaria di primo grado sono decisamente più critici rispetto a quelli con figli iscritti alle scuole superiori, basti pensare che tra i primi solo il 9% esclude che l'insegnamento da remoto sia dannoso, contro il 20% tra i secondi e il 35% tra i terzi.
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Indubbiamente al di là della complessità della didattica a distanza, nelle valutazioni entrano in gioco anche gli aspetti legati all'accudimento dei figli più piccoli (aspetto decisamente critico nei casi in cui entrambi i genitori abbiano un'occupazione) e al necessario supporto nella preparazione dei compiti e nell'attività di studio. In realtà il danno determinato dalla dad per il 36% riguarderebbe sia i processi di apprendimento sia la socializzazione dei bambini e dei ragazzi (percentuale che sale al 54% tra i genitori con figli iscritti alla scuola primaria), il 16% mette l'accento solo sui problemi di socializzazione e il 12% solo su quelli di apprendimento.
Quanto al lavoro da remoto, le opinioni sono ancor meno univoche rispetto a quelle sulla scuola: uno su tre (34%) è del parere che il cosiddetto smart working diminuisca la produttività del lavoratore, un altro terzo (31%) ritiene che non cambi nulla rispetto al lavoro in ufficio e il 20%, al contrario, è convinto che la produttività aumenti. I più critici sono i lavoratori del settore privato (sia impiegati e quadri dirigenti che lavoratori esecutivi, con il 39%), mentre tra i dipendenti pubblici la maggioranza relativa (37%) non ritiene che ci siano cambiamenti di rilievo in termini di produttività.
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Nelle opinioni degli italiani il calo di produttività è più accentuato tra i lavoratori pubblici (19%) rispetto a quelli del settore privato (3%), mentre l'11% ritiene che il calo riguardi indistintamente pubblico e privato. Sorprende il fatto che anche tra i dipendenti pubblici la risposta prevalente (19%) riguardi proprio il settore a cui appartengono.
Dunque, dopo l'iniziale reazione di sollievo registrata nella fase più acuta dell'emergenza sanitaria con l'adozione di modalità di insegnamento e di lavoro a distanza, oggi sono evidenti gli elementi di criticità e il sempre più diffuso desiderio di un ritorno alla normalità, sebbene la preoccupazione per il Covid, ancorché in arretramento, non sia affatto scomparsa.
Ma la normalità non sarà un mero ritorno al passato. Nessuno ha la sfera di cristallo, ma è molto probabile che una volta usciti definitivamente dalla crisi pandemica potranno prevalere, in ambito lavorativo, modalità alternate di partecipazione, con una maggiore attività in presenza, senza tuttavia annullare quelle da remoto che, nonostante le complessità, hanno tuttavia avuto un impatto positivo sul cosiddetto work-life balance ossia l'equilibrio tra vita lavorativa e non. Indietro non si torna.
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