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    “SOLO MARADONA ERA PIÙ FORTE DI VINCENZO D’AMICO” – IL RICORDO DI BRUNO GIORDANO: "NON SI ARRABBINO I TALENTI DI QUELL’EPOCA, ANTOGNONI, CAUSIO, SALA E BECCALOSSI. LUI AVEVA UNA CLASSE INCREDIBILE, NON GLI MANCAVA NIENTE, NEANCHE IL CARATTERE PERCHÉ NON ERA SOLTANTO UN GUASCONE. UNA VOLTA SI MISE A PALLEGGIARE CON LA TAZZINA, CHE NON È MAI CADUTA. CHE TALENTO, CHE UOMO FOLLE E MERAVIGLIOSO”


     
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    Da ilnapolista.it

     

    BRUNO GIORDANO VINCENZO D AMICO BRUNO GIORDANO VINCENZO D AMICO

    Bruno Giordano racconta Vincenzo D’Amico in un’intervista a Il Messaggero. L’eroe dello scudetto della Lazio del 1974 è morto due giorni fa: era malato da tempo di tumore.

     

    «Non avete idea di quanto fosse forte D’Amico, il mio fratellino».

    «Quante ne abbiamo passate insieme, non posso neanche dire che fosse un semplice amico perché ci vedevamo quasi tutti i giorni, proprio come fratelli. Prima in campo e poi fuori, nemmeno quando decise di andare in Portogallo, a Madeira, ci siamo allontanati. Appena atterrava a Roma, andavamo a cena, ovviamente anche con Giancarlo. Era una persona speciale, in tutto. Come in campo. Adesso vorrei che gli venisse riconosciuto il valore che Vincenzo aveva come giocatore perché non tutti lo hanno capito».

     

    Giordano lo mette un gradino appena sotto Maradona.

    «Credetemi, soltanto Diego era più forte di lui e quando glielo dicevo non si arrabbiava. Riconosceva la grandezza di Maradona, ci mancherebbe, ma dal punto di vista tecnico anche D’Amico era un mostro. Non si arrabbino i talenti di quell’epoca, Antognoni, Causio, Sala e Beccalossi.

     

    BRUNO GIORDANO VINCENZO D AMICO BRUNO GIORDANO VINCENZO D AMICO

    Lui aveva una classe incredibile, non gli mancava niente, neanche il carattere perché non era soltanto un guascone. Pensate a un ragazzo di 19 anni, che si affaccia nella Lazio, e forse nella squadra più folle di sempre, e si impone a tal punto da diventare titolare e protagonista dello scudetto. La società non era così forte da poter sostenere lui e un gruppo così strano, altrimenti avrebbe fatto un’altra carriera e avrebbe avuto una considerazione maggiore».

     

    Al Torino D’Amico non ci sarebbe andato se fosse dipeso da lui, racconta Giordano.

    «Un anno solo, poi scappò. Avrebbe smesso se non lo avesse ripreso la Lazio. Fu messo alle strette e accettò il trasferimento perché quei 300 milioni avrebbero aiutato il club a sopravvivere. Lui era nato biancoceleste, era nato per giocare solo nella Lazio, di cui è stato una bandiera che non potrà mai essere ammainata, nemmeno dopo la morte. Rappresentava un calcio di altri tempi, senza malizia, fatto d’amore e di generosità.

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    Credetemi: lui non ha solo vinto uno scudetto, i suoi successi sono stati la salvezza in serie B, la promozione immediata, la conquista della fascia di capitano. A quei tempi, erano trionfi, soprattutto per noi che dopo il ’74 abbiamo iniziato a soffrire. Teneva tutto in piedi Maestrelli, nemmeno il più bravo allenatore del mondo dal punto di vista tecnico avrebbe conquistato quel titolo e mantenuto la squadra unita in mezzo alle liti e alle divisioni. Tommaso era unico e irripetibile, come ogni elemento di quella squadra».

     

    Giordano racconta un aneddoto:

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    «Eravamo a Caserta, prima della partita Vincenzino era furibondo perché Maestrelli gli aveva sequestrato lo stipendio e lui sosteneva che non sarebbe andato avanti per troppo tempo con 300mila lire. Ad un certo punto finì il caffè e si mise a palleggiare con la tazzina, che non è mai caduta. Che talento, che uomo folle e meraviglioso».

     

     

    Una domenica, racconta Giordano, accadde qualcosa di incredibile durante Lazio-Napoli, la partita del rientro del centravanti dopo uno stop di cinque mesi.

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    «Agnolin fischiò un rigore, decisi di andare sul dischetto perché avevo bisogno di fare un gol. Ma sei sicuro? Te la senti? D’Amico mi venne sotto per calciare, io sbagliai ma l’arbitro fece ripetere l’esecuzione: Vincenzo mi disse ancora lascia fare a me… invece tirai un’altra volta e sbagliai di nuovo.

     

    Agnolin disse che il rigore andava ripetuto e allora si presentò il mio capitano: niente da fare, terza esecuzione fallita e naturalmente su quel ricordo siamo andati avanti per anni a prenderci in giro: l’errore è stato il tuo, perché era l’ultimo tiro, quello decisivo. Quanto coraggio aveva: una volta giocò con sette punti sul sopracciglio, che Ziaco gli mise durante l’intervallo. A quei tempi bisognava essere eroi per continuare e lui lo era».

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