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    “SONO LA VERSIONE SBIADITA DI JEP GAMBARDELLA” - PAOLO SORRENTINO RICORDA I DIECI ANNI DELLO STRAORDINARIO FILM “LA GRANDE BELLEZZA”: “A ME PIACE LA GRANDE FRAGILITÀ DELL’ESSERE UMANO. JEP È UNO SCRITTORE AFFERMATO E DANDY CHE SEMBRA SAPERE TUTTO DELLA VITA E INVECE NON SA NULLA. LE CARNEVALESCHE FIGURE DI CONTORNO SONO TUTTE ASSEDIATE DALLE LORO GOFFAGGINI E IMPREVEDIBILI DEBOLEZZE. ROMA CAMBIATA? DIECI ANNI FA AVEVO ANCORA LO SGUARDO DA TURISTA” - IL DIVERTENTE ANEDDOTO SU CARLO VERDONE E IL SONNO E… - VIDEO


     
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    Estratto dell'articolo di Luca Mastrantonio per “Sette - Corriere della Sera”

     

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    Intervistare Paolo Sorrentino a dieci anni dalla grande bellezza produce vari effetti. Primo, sorpresa. Dieci anni? Di già? Sì, dieci anni. Il tempo passa. Per tutti, tranne che per Jep Gambardella. Lui è lo stesso del 2013, quando uscì il film con Toni Servillo nei panni, di sartoria, del flaneur 65enne, ex prodigio letterario, apatico giornalista mondano. Così, intervistando il regista napoletano ci si sente la copia taroccata di Jep, ci si sente deludenti.

     

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    Ma la delusione, - secondo effetto collaterale -, la paura di deludere ed essere delusi, anche da sé stessi, è uno dei temi del film. Terzo: il cortocircuito tra il film e la location dell’intervista, un attico in zona Esquilino, nel cui studio ci sono due enormi lucernari che proiettano sul vetro l’azzurro eclatante del cielo di Roma, con i gabbiani sospesi dal vento sulla piazza. Alcuni, mentre le campane fanno vibrare l’aria con i loro rintocchi, arrivano così vicini che la finestra li incornicia in uno zoom apparente che esalta i riflessi bizantini del tramonto. Eccola, l’illusione che la grande bellezza sia questa cosa qui, tutta estetica. Ma è così?

     

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    Toni Servillo ci guarda con garbata misericordia dal muro opposto ai lucernari, pieno di poster di film e foto di scena, come quella dell’attore finito in copertina della sceneggiatura de La grande bellezza scritta con Umberto Contarello e ora pubblicata da Feltrinelli. […]

     

     

    Quando è stata l’ultima volta che ha visto il film?

    «Qualche mese fa. Volevo vedere un bel film...»

     

    C’è una scena che ricorda in particolare?

    «Le prime due scene, c’è tutto il film: il sacro della scena di giorno, al Gianicolo, e poi la festa in terrazza di notte, il profano, la stupidità, lo squallore, la bellezza, persone che flirtano, parlano delle loro ambizioni...»

     

    Un’altra scena che l’ha colpita?

    «Quando Servillo è sulla terrazza e c’è un’amica che gli sta rompendo le scatole con un discorso pesante, allora lui le offre una pizza di scarola e dice “Aè, l’ha fatta la donna delle pulizie, è più buona di quella di mamma”. Usa il dialetto velocemente, per liquidarla. Ridevo quando giravo quella scena [...] Alla fine dei giochi la grande bellezza vorrebbe solo essere un film molto divertente».

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    Toni Servillo deve essere divertente sul set.

    «Con Toni ormai riconosciamo subito i tipi umani che ci fanno ridere. Persone che si danno arie o persone serie in situazioni di disagio. Come Carlo Verdone, che quando gira i suoi film alle 10 di sera è a letto; ricordo che una volta facemmo una pausa alle undici e lui ha creduto che fosse finita e io ho detto “guarda Carlo abbiamo appena cominciato”. Era come se gli avessi detto è morto il cane! Il film è pieno di scene notturne. Ci faceva ridere la sua frustrazione di non poter andare a dormire presto, perché per noi invece era un’avventura stare fuori a Roma di notte in pieno agosto. Ti sentivi proprietario della città. Ricordo che era molto bello tornare all’alba con mia figlia, che aveva 15 anni».

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    « […] ho una capacità di stare in società limitata, come i bambini al ristorante, dopo un po’ si alzano e vanno a giocare».

     

    A proposito di scrittura come menzogna. Nei racconti Gli aspetti irrilevanti inventa storie guardando foto di persone sconosciute.

    «Mi piace. Io e mia moglie, che prima di stare assieme uscivamo come amici, ci siamo innamorati così. Eravamo sul lungo mare di Napoli, e guardavamo passare le persone e ci divertivamo a immaginare le loro biografie. È stato il primo grande passo per passare dalla amicizia ad altro. Nel libro ho fatto la stessa cosa».

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    […]

    Al funerale del figlio problematico di un’amica, Jep arriva dopo averci istruito su come comportarsi in questi casi: mai piangere se non si è parenti stretti, si ruberebbe la scena, dice. Poi però Jep scoppia in lacrime.

    «La vita è così, quello che programmi non va mai come deve andare. Lui programma un comportamento, ce lo spiega pure, ma poi viene tradito dai sentimenti. In fondo è un film su un uomo sentimentale che si camuffa, si nasconde dietro il disincanto e il cinismo. Sono le stesse cose che avevo in testa quando l’ho fatto, il film non è cambiato».

     

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    E Roma è cambiata?

    «Dieci anni fa ero fresco, avevo l’incanto del turista, ero affascinato dai riti, dalle cene, gli incontri con persone strampalate che ho messo nel film. Per chi viene dal Sud, da Napoli, Roma è a Nord ma non è Nord, è Italia centrale. È una città piene di persone che vengono da fuori, che stanno sempre a parlare, vogliono affermarsi, fare scalate. Questo mi divertiva molto, mi piace ascoltare per lavoro e indole. Ora la curiosità ha preso altre forme e mi colpisce sempre più la grande differenza con Napoli, che è una porta sul Meridione».

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    Roma è ancora sospesa tra bellezza e squallore?

    «Credo che lo squallore contenga una sua bellezza e la bellezza abbia qualcosa di squallido, è la mia modestissima idea. Sì, c’è il canone, il David, ma a me piace la grande fragilità dell’essere umano, che si manifesta negli interstizi dei comportamenti, l’insicurezza delle persone che parlano con perentorietà: Jep è uno scrittore affermato e dandy che sembra sapere tutto della vita e invece non sa nulla; e pure le carnevalesche figure di contorno, tutte assediate dalle loro goffaggini e imprevedibili debolezze. Per me questo è bello, è la grande bellezza. Poi il film è stato letto in tanti modi, come un j’accuse o una rappresentazione ironica, per me non è così».

     

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    Lei è cambiato in questi 10 anni?

    «Come tutti, invecchio. […] Senza arrivare a quelli che perdono tutti i freni inibitori e dicono qualsiasi cosa. Ma è la deriva di un processo in cui inizi a dire ciò che pensi e te ne freghi delle conseguenze, perché crescendo impari a conoscerle, mentre da giovane non le conoscevi e ti facevano paura; invecchiando il copione della vita inizia a diventare scontato e prevedibile nelle conseguenze e allora dici “vabbè, chissenefrega”».

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    A 65 anni sarà uguale a Gambardella?

    «Se togliamo l’apparato mondano, gagà e vanitoso, le giacche colorate, è un personaggio in cui mi rispecchio molto. Anche io sono abbastanza cinico e disincantato. Sono la versione sbiadita di quel personaggio là. Mi è piaciuto molto nel film canzonare quelli che si credono superiori agli altri, che si sparano delle pose, in terrazza o nelle interviste dove danno molta importanza a cose che sono totalmente irrilevanti […] ».

     

    […] «io non parlo di due cose. Il nuovo film cui sto lavorando. E lo scudetto del Napoli».

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    […]

    Rivedendo il film mi ha sorpreso la Santa. Più interessante, meno faticosa di quel che ricordavo.

    «È quella che piace meno a tutti, invece è fondamentale, perché il film è la storia di un uomo disincantato, che non riesce a meravigliarsi più, in una città bellissima ma piena di gente gioiosamente avvilita. Lei, che viene da lontano ed è in odore di santità, lo riporta alle origini, cioè l’unica cosa che conta.

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    Ed è fondamentale anche perché Jep è prossimo ad essere anziano e la vita, se hai la fortuna di invecchiare, diventa estenuante, e per essere estenuante un film deve allungarsi quando sembra sul punto di finire. Così, quando il film poteva finire, ho fatto arrivare la Santa, ed è diventato straziante, il film, come la vita di Jep. È un miracolo che La grande bellezza abbia avuto successo, perché era un film lungo e stancante, voleva esserlo e lo è stato».

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