DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
Antonello Guerrera per "la Repubblica" - Estratti
«Sono morto senza morire». Sono le commoventi parole di Hanif Kureishi, lo scrittore britannico di origine pachistana rimasto tetraplegico dopo una rovinosa caduta in casa a Roma, a Santo Stefano di due anni fa, mentre beveva una birra e ammirava sull’iPad un gran gol di Salah del suo Liverpool. Poi, il mancamento improvviso. Il crollo. Sangue ovunque. La testa contorta tra le gambe. Il ricovero al policlinico universitario Agostino Gemelli. Una caduta tragica, tuttora senza motivo: «Non ero nemmeno ubriaco. I medici hanno escluso l’ictus. Ma da giorni non mi sentivo bene. Difatti, all’indomani avrei avuto un appuntamento dal medico».
Troppo tardi.
Da allora, il 69enne autore del Budda delle Periferie e di My Beautiful Laundrette è rimasto paralizzato dal collo in giù. Una vita sconvolta. Quella di Kureishi, ma anche della sua compagna, l’agente letteraria Isabella D’Amico, che da allora lo assiste ogni giorno con l’aiuto della giovane badante Blandine e altri infermieri: «In quel momento, ho divorziato da me stesso. La mente non era più coordinata con il resto del corpo. Pensai di morire, e che mi rimanessero solo tre respiri».
Kureishi si confessa in una lunga intervista al Daily Telegraph , che è andato a trovarlo nella sua casa a tre piani di West London in occasione dell’uscita del libro In frantumi (Bompiani), intimo diario-calvario della sua recente esistenza, e della versione teatrale del Budda delle Periferie , al Barbican di Londra fino al 16 novembre. Dopo il dannato incidente di fine 2022, lo scrittore è in sedia a rotelle e il cielo gli è crollato addosso. Da quel giorno, impiega due ore per alzarsi, lavarsi e vestirsi.
Si sottopone a intensi cicli di fisio e idroterapia, unico momento «in cui riesco anche a camminare» benché sostenuto da due medici. Infine, va a letto alle 19, al piano terra dell’abitazione dove è tornato a vivere nel 2023 dopo un anno di ospedali, cliniche e riabilitazioni. Tra libri sull’amico David Bowie, cresciuto come lui nella periferia londinese di Bromley, e romanzi di Arthur e Henry Miller.
Al piano seminterrato, invece, ci sono le prime edizioni e traduzioni delle opere di Kureishi. Anni fa, però, la cantina si è allagata e sono andati distrutti tutti i ritagli di giornale che papà Rafiushan aveva conservato del figlio, sin dalle premesse del suo successo. «Piano terra a parte, il resto della casa oramai non lo vedo da anni», si rammarica Kureishi. Blandine e un’altra infermiera lo aiutano ad alzarsi. Lui scherza amaro: «È come sollevare il Titanic!».
Oggi Kureishi percepisce qualche limitato stimolo nei suoi arti. Nulla più. Non può camminare. Non può alzare il suo braccio destro più di 30 centimetri, quello sinistro ancora di meno. Non può bere da solo, se non con l’aiuto di Blandine e di una cannuccia. Riesce a dormire. Ma la notte soffre di incubi spaventosi e le urla svegliano Isabella. «La cosa peggiore è perdere le mani », racconta lo scrittore al quotidiano inglese, «pensate a come vi sentireste, se qualcuno ve le legasse per una sola ora. Non posso più prendere un treno per Parigi. Non posso più andare a Roma dove trascorrevamo molto tempo con Isabella. Se penso a tutte le cose che non posso più fare, mi sento male».
«Ma non tutto mi è interdetto»,
(...) «Alla fine, posso ancora parlare, ascoltare musica, vedere gli amici. Anzi, oggi ne incontro più di quando avevo una vita normale. Mi vengono a trovare persone che prima vedevo molto raramente, o gente a caso. E questo è meraviglioso. Perché capisci quanta gentilezza si celi negli umani. Spesso non ce ne rendiamo conto. Per me, ogni giorno è come assistere al mio funerale. Ma non sono ancora morto».
Non solo dramma. Soffiano anche toccanti nugoli di humour in In frantumi . Come le osservazioni sul “galateo” delle persone che lo incrociano in strada: «Non possono darmi la mano. Allora qualcuno mi bacia. Un altro mi dà tre pacche sulla spalla, ma quando mai sarebbe accaduto in condizioni normali? Oppure c’è chi parla a voce più alta, come se non ci sentissi. È tutto un po’ bizzarro. Eppure, queste persone vogliono essere solo gentili». La luce dell’ironia, in questo profondo tunnel: «Non mi voglio lasciar andare. Di tutto questo voglio fare qualcosa».
In frantumi è l’odissea quotidiana e dolorosa di Kureishi, di madre inglese e padre indiano/pachistano, che passava notti a scrivere romanzi che nessuno avrebbe mai letto. Ma ciò non ha mai scoraggiato il piccolo Hanif. Che oggi, molti anni dopo aver coronato il suo sogno e incarnato una delle voci più provocatrici della letteratura britannica postbellica, non può più scrivere da solo. Né i suoi libri né i diari della malattia, ogni giorno seguitissimi su X o sulla piattaforma Substack.
Niente. Nemmeno una parola. «Dopo l’incidente, mi sentivo davvero un vegetale», continua Kureishi al Telegraph , «non potevo muovere un c.... di niente del mio corpo. Però potevo parlare. Le mie funzioni cognitive erano ancora lì. Certo, era deprimente. Pensai: “Chi sono ora?”. Eppure, volevo davvero scrivere, tornare a essere quella persona che conoscevo, e non rassegnare il mio corpo al sistema medico-industriale e nelle mani di infermieri, dottori e macchine. Se non hai più la privacy del tuo corpo, almeno proteggi la mente».
E così, a scrivere, radersi e in altre faccende quotidiane, oggi lo aiutano Isabella ma anche Carlo, il suo primogenito di 31 anni insieme al fratello gemello Sachin, e il 26enne Kier, tutti avuti da due precedenti relazioni sentimentali. Hanif detta, la famiglia scrive e poi posta tutto online: «Il mio primo articolo su Substack è stato un appello del tipo “C’è nessuno?”. Ma ha subito ricevuto molte reazioni. Allora ho scritto una seconda lettera che ha attirato ancora più pubblico, e così via. I lettori mi hanno scritto. Erano commossi, scossi e affascinanti dalla mia storia».
«Dunque, ho capito che c’era un mondo interessato a me. E un trauma del genere ha paradossalmente generato nuove opportunità», argomenta Kureishi. «Per esempio, prima non vedevo Carlo quasi tutti i giorni, nonostante vivesse dietro l’angolo. Ora sì e abbiamo un rapporto ancora più forte. Continuo a scrivere, anche se in un modo diverso. Ma è pur sempre la mia scrittura. Dopo questo libro ne scriverò un altro, e poi un altro ancora, e poi la sceneggiatura di un film tratto da essi».
In frantumi è stato già lodato da Salman Rushdie, dal quale Kureishi dice di aver imparato ad «avere pazienza, come lui ne ha avuta con la fatwa»: «Hanif è da tempo una delle voci più emozionanti, irriverenti e influenti della sua generazione», è l’endorsement dell’autore anglo-indiano dei Versi satanici , «questo bellissimo e commovente memoir affronta le calamità personali con arguzia, onestà senza fronzoli e grazia letteraria».
E Zadie Smith: «Molte cose vanno a pezzi in questo resoconto privo di sentimentalismi di una caduta devastante. Ma alcune cose rimangono perfettamente intatte.
L’umorismo, il talento, la curiosità, la chiarezza e la ferocia di Hanif sono tutti presenti».
E forse, anche stavolta, l’amore vincerà su tutto. Kureishi e D’Amico si sono incontrati nel 1998, ma la loro vera relazione è sbocciata nel 2014 e due anni dopo lei si è trasferita a Londra. «Anche Isabella soffre tantissimo, questa situazione è terribile per me e lei».
Conferma D’Amico: «È difficile per tutti. Abbiamo sempre alti e bassi, ma Hanif è stato straordinario, ha sempre un atteggiamento molto positivo, nonostante tutto». Kureishi non si è mai sposato in vita. Ma ora al Telegraph si dice convinto di convolare a nozze con la sua compagna.
A Las Vegas, à la Elvis Presley: «Isabella non vuole sposarsi con me ancora costretto su una sedia a rotelle, preferisce aspettare che guarisca. Ma questa possibilità è ancora lontana. Proverò a convincerla prima».
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