Alberto Mattioli per la Stampa
Castello del Duca Barbablu BARTOK
Quella formata da Teodor Currentzis e Romeo Castellucci, rispettivamente direttore e regista, è ormai una coppia di fatto, almeno a Salisburgo dove non passa festival che non le venga affidato uno spettacolo.
Quest’anno sono addirittura due, benché in una serata sola: l’accoppiata, stavolta davvero strana, del “Castello del Duca Barbablù” (o “A Kékszakállú herceg vára” nell’originale ungherese, lingua notoriamente facilissima) di Bartók con “De temporum fine comoedia” di Orff.
Castellucci è un mito vivente in Germania e soprattutto in Francia, mentre in Italia nessun teatro d’opera gli ha finora commissionato uno spettacolo, limitandosi a importarne dall’estero, e pochi anche in questo caso. È più divisivo di Carlo Calenda: o lo si ama o lo si odia, senza via di mezzo e nemmeno mezze misure.
Chi scrive appartiene alla seconda scuola di pensiero: più che regie, le sue mi sembrano elegantissime installazioni, il cui rapporto con il testo è labile e semmai un pretesto per mettere in scena le proprie personali ossessioni o divagazioni, e fra quelle di Castellucci e quelle di Wagner o Mozart o Scarlatti mi interessano più le seconde.
Castello del Duca Barbablu BARTOK 1
Però in questo caso Castellucci funziona di più, o non funziona di meno. Nel “Castello”, l’azione è infatti tutta psicologica, e i pochi elementi “fattuali” sono soltanto simboli. Ci sta quindi che le sette porte corrispondenti alle sette scomparse spose di Barbablù non ci siano. Tutto si svolge al buio, dentro una pozza d’acqua, mentre delle leggere strutture metalliche si illuminano di fiamme.
Che cosa voglia dire, non è ben chiaro; che sia assai suggestivo, non c’è dubbio; soprattutto, è importante che immagini così sofisticate e misteriose si sposino alla perfezione con la direzione inaspettatamente liricissima e incantata di Currentzis. Nell’Orff, la musica cambia ma lo spettacolo no. Restano quiz misteriosi (perché le Sibille, prima della prima nota, lapidano Judith, cioè l’ottava moglie di Barbalù?), ma in effetti quella di Orff è una cantata scenica con una drammaturgia labile, quindi uno spettacolo puramente di immagini e spesso, va riconosciuto, bellissime, la serve abbastanza bene.
Di Currentzis si è già detto. Il suo “Castello” è veramente affascinante, la dimostrazione che un sussurro può essere molto più agghiacciante di un urlo. Notturna, sospesa, misteriosa, l’orchestra (che stavolta è una meravigliosa Gustav Mahler Jugendorchester) avvolge nelle tenebre questo maniero tutto immaginario: un sogno, o forse un incubo. Bravissimi sia Mika Kares sia Ausrine Stundyte (nessuno dei due è madrelingua, ma non chiedetemi come fosse il loro ungherese).
Castello del Duca Barbablu BARTOK 3
In Orff le cose funzionano altrettanto bene, anche perché intervengono due sezioni dell’orchestra davvero spettacolari, ottoni e percussioni, e il gruppo delle Sibille, che aprono l’opera vocalizzando follemente come valchirie impazzite, è strepitoso. Semmai sembra invecchiata, e non bene, l’opera di Orff, che debuttò proprio qui nel 1973 diretta da Karajan. Forse invertire i due titoli, prima Orff e poi Bartók, avrebbe evitato qualche fuga anzitempo dalla Felsenreitschule, come quella di una meravigliosa centenaria, passata davanti alla prima fila di poltrone con una ieraticità che l’aveva inizialmente fatta scambiare per qualche profetessa o sibilla o anacoreta della fine del mondo (e tutti i soliti blasé già a sbuffare: oh, no, ancora lo spettacolo in platea…).
Quanto alla nuova “Zauberflöte”, unico titolo mozartiano dell’annata, si può riassumere con poche parole. La produzione appartiene infatti alla famigerata categoria del “carino”, e sembra a tratti una produzione per bambini. In effetti i tre protagonisti sono i genietti (i soliti fenomeni dei Wiener Sängerknaben, decisamente i migliori di tutta la compagnia), cui un Nonno racconta la storia di Tamino & Co. come se fosse una favoletta, sostituendo ai dialoghi di Schikaneder quelli della regista Lydia Steier e della sua drammaturga Ina Karr: quasi altrettanto naïf, però.
Teodor Currentzis e Romeo Castellucci
Una scena rotante rappresenta una bella casa borghese dell’Austria ancora felix ante Prima guerra mondiale, e infatti a un certo punto entrano anche gli imperialregi soldati in feldgrau, il grigioverde locale. Gli effetti speciali sono volutamente ingenui, il drago di cartone, la Regina della notte che si solleva insieme alla tovaglia del tavolo da pranzo, e così via.
Lo spettacolo è un po’ pasticciato ma tutto sommato funziona, anche perché se c’è un’opera che regge ogni lettura è proprio “Il flauto magico”. O forse dipende dal fatto che stiamo tutti continuamente regredendo all’infanzia, e ormai un trentenne di oggi ha la testa di un quindicenne di vent’anni fa (quanto a cultura e padronanza dell’italiano, molto meno).
DE TEMPORUM ORFF
Dal podio, Joana Mallwitz imprime alla serata un bel ritmo spedito anche se non frenetico come quello di certi baroccari, ma manca un po’ di finezza e alla mia recita (6 agosto) si è pure avvertita qualche sfasatura fra buca e palco. Compagnia modestina, con punte in alto per la Pamina di Regula Mühlemann, molto di tradizione salisburghese, qualche suono fisso compreso, e il Papageno terragno e solido di Michael Nigl, e vabbé che fare male Papageno è quasi impossibile.
In basso, per la Königin di Brenda Rae, grande artista che però dovrebbe cambiare repertorio: una Regina che pasticcia “Der Hölle Rache” a Salisburgo è un tradimento, come se al Cambio sbagliassero il brasato al barolo. In mezzo, mediocritas nemmeno tanto aurea, il Tamino di Mauro Peter e il Sarastro (un Sarastrino) di Tareq Nazmi. Visto dove siamo e la tradizione in loco del titolo, per essere la nuova “Zauberflöte” di Salisburgo è un po’ pochino.
FESTIVAL SALISBURGO 2
alberto mattioli