DAGOREPORT - QUANDO LA MELONI DICE "NON SONO RICATTABILE", DICE UNA CAZZATA: LA SCARCERAZIONE DEL…
Giancarlo Dotto per Dagospia
E’ solo nazionoia. Sì, portiamoci a casa i tre punti, spezziamo le reni ai maltesi, dopo aver scudisciato quelle dell’Azerbaijan, nazioni calcisticamente paragonabili a due pidocchi sulla groppa di un elefante.
Dopo la sbornia iniziale e nazionale, molto dovuta all’esserci finalmente liberati di quel mormone mattone di Prandelli, spedito a sfasciare i turchi, mai così felici da anni di bestemmiare un allenatore, Antonio Conte comincia forse a capire la noia e la fatica assoluta di fare da reggente di una squadra che non è club, ma nemmeno patria.
Uno strano pesce anche un po’ maleodorante, montato e messo insieme di tanto in tanto, che inutilmente tentano di arrapare ogni volta a furia di note mameliche; ma niente, solo noia, ad ammorbare una nazione che vuole solo l’ebbrezza forte dei suoi campanili e vive le lunghe soste internazionali come un piccolo lutto, una notevole tortura e, certo, un’insostenibile botta d’inedia.
ANTONIO CONTE E CARLO TAVECCHIO
Tutti a contare i giorni e le ore che ci separano dal nostro calcio di casa. Bisogna aspettare ogni quattro anni un mondiale per attizzare la molto occasionale baldoria di patria e magari essere presi a calci dalla Costarica.
Antonio Conte aveva già firmato per il Milan, prima di finire imbragato nella morsa dell’Agnelli. Non voleva la Nazionale. Sapeva che non era roba per i suoi denti. Ha sparato cifre e richieste molto esose, fiducioso di essere respinto. Ma Tavecchio e Lotito avevano bisogno di lui per nettarsi di certa lordura. E, dunque, eccoli qui, tutti prigionieri, uno dell’altro. Povera patria.
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