DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
Estratto dell’articolo di Federico Ferrero per la rivista “il Tennis Italiano” pubblicato dal Corriere della Sera
Riano, provincia di Roma, un giorno del 1985. Dal telefono a gettoni del centro tecnico del Coni parte una chiamata: «Adriano, sono Paolo. Devi venire subito, qui c’è un under 16 che sta facendo un provino ma con gli altri non c’entra niente. Certo che dico sul serio. È mancino, la palla gli esce che è una meraviglia. Devi vederlo». Paolo era Bertolucci. Adriano era Panatta, allora direttore tecnico della Federazione tennis e pure febbricitante, ma andò ugualmente a vedere quel ragazzino che al suo circolo, a San Benedetto del Tronto, si allenava col maestro Ferrante Rocchi (ex 153 Atp) e tutti lo chiamavano Virgola, perché era magrissimo.
Panatta arrivò e restò folgorato. Lo convocò in segreteria: «Ragazzino, come ti chiami? Noi vogliamo farti entrare nel gruppo. Sì, in nazionale: pensiamo a tutto noi, allenamenti, sistemazione, pasti. Dormirai con gli altri al residence Parioli in città, al mattino verrà il minibus a caricarvi». «Salve, io sono Roberto. E in questo lager non ci voglio stare un giorno di più, altro che venirci a vivere». Qui finisce la storia, meglio, una delle storie al limite del concepibile di Roberto Palpacelli, un Enea apocrifo del tennis, un eroe mitologico del quale nessuno, però, ha mai scritto nulla.
Al suo nome è associata una quantità di leggende metropolitane abnorme, per un giocatore che ha un solo dato ufficiale: il 1.355, cioè un punto Atp, nel 1999. Una messe di racconti e aneddotica tramandati di bocca in bocca, che la conoscenza collettiva di Internet non solo non ha chiarito, anzi, ha contribuito a dilatare fino a sconfinare nell’imponderabile: «Ha battuto tre volte Boris Becker», «A trent’anni, con la sigaretta in bocca, ha dato 6-1 6-1 a Volandri», «Ha vinto una partita in serie B tenendo in mano una bottiglia di birra», «Era il più forte di tutti».
L’ultima è la frase più ricorrente, sul suo conto: era il più forte di tutti. A più di trent’anni dall’episodio di Riano, Paolo Bertolucci conferma: «Palpacelli era davvero speciale. Eravamo rimasti colpiti dal suo talento, ma già al raduno si vedeva che era un ribelle: non gli stava bene niente, si lamentava in continuazione. Capita così coi talenti, uno come Fognini è più difficile da governare di un Seppi, no? Solo che non ne volle proprio sapere: gli consigliammo di tornarsene a casa, pensarci bene e richiamarci. Naturalmente, quella telefonata non arrivò mai. Mi è dispiaciuto molto, perché era un pezzo raro; sembrava la accarezzasse, la palla, poi partivano fucilate. Stilisticamente era perfetto. Da lì, credo di averlo rivisto una volta sola, tanti anni dopo. Sapevo che stava passando dei problemi. Eravamo a Verona, ai campionati italiani, mattina presto, al bar: io presi un caffè, lui un Campari».
PANATTA BERTOLUCCI PIETRANGELI
Roberto Palpacelli, che a 48 anni ha accettato per la prima volta di raccontarsi dopo un corteggiamento piuttosto complesso, arriva a Giulianova in treno. Zainetto, stivaletti sportivi, capello corto, orecchino. «Se c’era un fotografo o un cameraman scappavo» esordisce, strizzando una Marlboro tra i denti. «Riano? Certo che lo ricordo. Mi dissero che mi sarei allenato con Riccardo Piatti che aveva il gruppo di Furlan, Caratti, Mordegan, Nargiso e Brandi, tutti ragazzi del 1970 come me. D’istinto risposi di no: mi proponevano tennis, pranzo, atletica; la sera, autobus e stanzoni. Ma io avevo altre cose per la testa: a quindici anni fumavo già le canne. L’anno dopo feci il primo tiro, intendo di eroina, e il problema fu che mi piacque».
PANATTA BERTOLUCCI PIETRANGELI
Sdoganato a sorpresa l’argomento più lacerante, quello su cui era più probabile si sarebbe girata la testa dall’altra parte, srotolare la bobina degli altri ricordi è quasi una scampagnata: «La federazione ebbe la cattiva idea di convocarmi in Coppa Europa, a Sciacca. La prima sera facemmo la passatella, un giochetto alcolico tipico delle nostre parti. Finì che mi appartai con delle ragazzine svedesi che stavano nello stesso albergo e poi, preso dai fumi dell’alcol, spaccai un po’ di cose. Ovviamente mi cacciarono e non mi chiamarono mai più».
A diciassette anni, la federazione depennò il suo nome dalle liste e lo mise tra gli indesiderabili. Nato a Pescara, figlio di Giovanni Cecio Palpacelli, una talentuosissima ala destra di serie C di cui ancora si ricorda un famoso gol col Cosenza a Reggio Calabria nel ’59, baby Palpacelli cresce in una famiglia della media borghesia, due sorelle, la scuola, lo sport e un fisico fatto per essere atleta. Arriva al tennis per vicinanza, perché a calcio era bravo almeno quanto il padre: «I campi da tennis del circolo erano accanto a quello di pallone e avevamo fatto un buco nella rete per andarci a giocare di nascosto. Un giorno il maestro del club mi acchiappò, pensavo mi avrebbe mandato via a calci. Invece mi propose un provino».
In quegli anni è tutto molto veloce e altrettanto facile: lasciato lo sport professionistico, Palpacelli padre venne trasferito a L’Aquila dalla sua banca e si portò dietro la famiglia. «Lì incontrai il maestro Totò Bon, uno bravo, da giocatore aveva anche battuto Panatta. Allenava me, Katia Piccolini e Pietro Angelini. Un anno, siccome i miei vedevano che miglioravo costantemente, una volta alla settimana mi facevano prendere l’autobus con mia sorella e andavamo a Roma da Vittorio Magnelli.
Lì dividevo il campo con Eugenio Rossi (noto al pubblico del tempo per un flirt con Gabriela Sabatini, nda), Stefano Pescosolido e Vincenzo Santopadre. Spesso Magnelli ci provava, mi chiedeva di trasferirmi da lui ma io rifiutavo perché ero, parole sue, una cap’ecazz. Aveva ragione: proprio non riuscivo a vederlo come un lavoro, il tennis. Mi accontentavo di diventare B1, come quelli che vincevano il torneo di Pescara, che per me era il centro del mondo. Lo vedevo come un punto di arrivo».
In famiglia, come è ovvio, tutti sapevano, vedevano, si disperavano. Difficile non accorgersi di certe cose. Si fecero in quattro per aiutarlo: suo padre, sfruttando una prassi dei tempi, gli aveva anche proposto il suo posto in banca, una volta andato in pensione. Diplomato in Ragioneria, il figlio poteva sostituirlo: ecco un’altra chance di fare una vita normale. «Mancai anche quella. Non ero uno da banca. Se avevo qualche soldo, mio padre diceva di mettermeli da parte, soprattutto nei periodi buoni. E c’erano tempi in cui facevo due milioni (di lire, circa 1.000 euro nda) alla settimana.
Altro che libretto di risparmio: io li spendevo in sesso, droga e rock&roll, capito? Mi sono voluto divertire e questa è una cosa che non va d’accordo col tennis professionistico». In quattro anni, la discesa agli inferi: «Furono i peggiori della mia vita: a 24 anni il militare, a 25 la scuola nazionale maestri da cui fui allontanato perché capirono presto in che stato ero; a 26 finii in mezzo alla strada, letteralmente, neanche i miei volevano vedermi ridotto così.
A 27, entrai in comunità. L’ultima occasione sportiva vera me la diede un’azienda che mi finanziò, nei primi anni Novanta, per farmi allenare. Solo che mi consegnarono quattro milioni di lire (2.000 euro, nda) per andare giocare dei futures in India. Uno come me, in India, con soldi in tasca. Più o meno è come lasciare un bambino nel paese dei balocchi. Al primo impatto, vidi una distesa di capanne di stracci, la gente che ti veniva incontro, i bambini, le fogne a cielo aperto. Stavo per risalire sull’aereo. Poi, a quel caos, mi abituai. Partii che pesavo 77 chili. Giocai la prima partita su un campo di sterco di bue, che da secco diventa una specie di gomma, contro un giocatore locale che ci era abituato, faceva sempre serve&volley. Poi, invece di ripartire per un altro torneo, mi fermai e in 16 giorni spesi tutti i soldi. Come, è facile immaginarlo. Persi 14 chili, non volevo più tornare in Italia. Lì iniziai davvero a mettermi nei guai».
Quello che viene da chiedersi, al di là di come sia riuscito a tornare vivo dal suo viaggio all’inferno («In effetti non lo so: una volta mi fecero la puntura di adrenalina nel cuore, neanche con quattro fiale di Narcan erano riusciti a recuperarmi»), è come Palpacelli possa essere riuscito a tenere una racchetta in mano. La natura, insieme al talento per il tennis, lo ha fornito di un fisico mostruoso: potente, compatto, velocissimo, leggero e violento, una combinazione di qualità da fuoriclasse assoluto. Lui si schermisce: «Ma no, il merito è di chi me lo ha insegnato: ad Ascoli mi seguì il coach di Pietro Mennea, il mitico Carlo Vittori, e mi insegnò a usare i piedi. Dopo aver lavorato con lui, coprivo il campo con due passi».
Ma la verità è un’altra e la testimonia, tra le tante, una partita di una vita successiva. Anno 2012: Palpacelli ha 42 anni, un’età da cesto e tuta col cappuccio e soprattutto, contro tutti i pronostici, è ancora vivo. Si è innamorato dell’avventura sportiva del CT Mosciano, un piccolo e vivace circolo del Teramano che ha un sogno, portare il club dalla serie C alla serie A. Per farlo, serve una stella. Palpa, che è un sentimentale anche se ormai fuori tempo massimo, ci sta: gioca contro ragazzi di vent’anni più giovani e in due anni perde una partita da mezzo infortunato il primo anno, un set il secondo.
Trova clienti come Benincà, numero 1.200 Atp e sedici anni di vita sregolatissima in meno, e domina 6-3 6-0. Vincenti a pioggia, roba da spellarsi le mani. La memoria collettiva delle sfide degli anni Novanta, come a Recanati quando lui e Paolo Canè fecero quasi 4.000 spettatori e la gente si sedeva sulla collina per vederli giocare, richiama ancora gente da Marche e Abruzzo. Il pubblico non ha dimenticato e va a vedere il Mosciano perché hanno detto che c’è di nuovo lui, il Palpa, e sembra giochi ancora come ai tempi della coda di cavallo e del coltello (sì, fu visto tagliarsi i capelli in campo con il pugnale di Rambo).
Allo spareggio per la promozione in A2 contro il Piacenza, Palpacelli sfida Adriano Albanesi, classifica 2.1, trent’anni, in formissima. Fa un caldo bestiale. Dopo un’ora di lotta, perde il primo set al tie-break. Si sdraia sulla panchina, cerca qualcosa nel borsone, tira fuori una sigaretta. Mentre fuma, paonazzo, dal pubblico qualcuno gli grida di non mollare, perché sembra voglia lasciare il campo, ormai esausto. Testimone dello scambio è Marco Gualdi, ex 800 al mondo e coach del Match Ball Bra, quel giorno suo avversario. «Palpacelli si girò, offeso, verso i suoi e disse che non gli dovevano rompere le palle, che tanto avrebbe vinto lui 6-1 6-1».
Si sbagliò di poco: vinse secondo e terzo set 6-1 6-2. Albanesi e i suoi compagni non ci volevano credere. “Palpa” finì innaffiando tutti con l’idrante e, un minuto dopo aver smesso di festeggiare, una fotografia catturò il suo demone: seduto su un gradino, lo sguardo nel vuoto, una Marlboro rossa tra le dita. Era già malinconico, come se la gioia non fosse un sentimento gratuito e si dovesse pagare col dolore. Di lì a poche settimane, Palpacelli fece perdere le tracce di sé «e quando smette di rispondere al telefono non è mai un buon segno», dicono i suoi amici. Staccò il cellulare per andare ad affogare nei bar il suo male di vivere. Al circolo, anche se non è più affiliato, gli vogliono un bene dell’anima: «Roberto è unico. Chi entra in contatto con lui, lo adora: stare con lui significa ammazzarsi di risate e accettare grandi sofferenze».
(L’articolo completo è pubblicato su «Il Tennis italiano» di aprile. E, tra qualche giorno, anche sul sito www.tennisitaliano.it)
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