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Marco Bonarrigo per il “Corriere della Sera”
«Il primo e spero ultimo schiaffo della sua vita mia figlia Monica non l'ha preso da me o da mio marito, ma dalla sua allenatrice di ginnastica artistica dopo un esercizio sbagliato. L'ho saputo per caso: una ragazzina più grande di lei mi ha vista fuori dalla palestra e mi ha riferito i fatti.
Sono piombata in sala, cosa vietatissima ai genitori. Monica mi si è subito stretta addosso, con il segno rosso della sberla sulla guancia. C'erano altre bimbe e mi sono controllata: se avessi seguito l'istinto, avrei sbattuto l'allenatrice contro un muro. Mia figlia aveva otto anni, capisce?».
Marina, mamma di Monica - i nomi sono di fantasia -, non è un genitore fanatico. Di quello che è accaduto alla sua bambina in una palestra del Nord Est, della giustizia che non ha avuto dalla Federginnastica, non ha parlato pubblicamente fino a quando è esploso lo scandalo delle molestie. Adesso ha deciso di farlo «perché nessuno subisca mai più comportamenti simili».
Marina, perché avevate scelto la ginnastica artistica per sua figlia?
«Perché le piaceva, perché è uno sport bello, perché con la prima istruttrice Monica si allenava con gioia. Preferimmo l'artistica alla ritmica perché la questione peso è meno importante e lo sviluppo del corpo più armonico. A posteriori, qualche rischio l'avevamo sottovalutato».
Quale?
«A otto anni Monica si allenava sei giorni a settimana, quattro ore al giorno. Bambine piccolissime preparavano i campionati italiani».
Quando sono cominciate a cambiare le cose?
«Con la nuova allenatrice e un programma più agonistico. Tra le mamme correva voce che volassero schiaffi per esercizi sbagliati. Pensavo ad esagerazioni fino a quando Monica è tornata a casa dicendomi di aver preso un buffetto per aver commesso un errore».
Lei?
«Andai subito dall'allenatrice: mi disse che la cosa non si sarebbe ripetuta. Mai più, le risposi a muso duro».
Poi?
«Quell'episodio. Ripeto: se una ragazzina non mi avesse avvertito quasi pentendosi di averlo fatto, se non avessi visto la faccia di mia figlia forse non me ne sarei accorta. Quando le allieve si abituano al sistema non raccontano nulla a casa, credo per paura».
Che cosa le disse l'allenatrice?
«Che mia figlia si era distratta e per questo era caduta dalla trave. Che era stata costretta a darle uno schiaffo e che infatti l'esercizio successivo era stato eseguito in modo perfetto».
Lei?
«Portai via Monica: in quella palestra non è mai più rientrata e c'è voluto un anno per farle tornare voglia di sport. Ma con mio marito non ci siamo fermati, volevamo capire: abbiamo subito chiesto una riunione col presidente, la coach e i soci».
Risultato?
«Silenzio assordante. La società difendeva la sua coach e copriva i suoi comportamenti: mi dissero che tutto sommato uno schiaffo ci poteva stare. Eppure sapevano cosa succedeva. Ha parlato solo lei spiegando che quelli erano i suoi metodi educativi. Nel frattempo avevamo raccolto le testimonianze di altre atlete che parlavano di schiaffi, tirate di capelli, umiliazioni. L'inchiesta penale sta dimostrando che i comportamenti erano sistematici».
Vi siete mossi per avere giustizia.
«Non subito, eravamo sotto choc. Ma altri genitori hanno presentato un esposto alla Federginnastica su questioni amministrative, citando l'episodio».
E...?
«Ci ha convocato la procura federale. La bambina ha testimoniato. Abbiamo raccontato tutto, fornito i contatti di chi aveva subito episodi simili».
E i procuratori?
«Molto tempo dopo, per via indiretta, abbiamo saputo che l'insegnante aveva "patteggiato senza colpa" con loro un mese di sospensione. Le sberle punite con un mese e il silenzio».
Come vi siete sentiti?
«Soli. La Procura Fgi non ha tenuto conto della testimonianza, non ha sentito le altre ragazze, non ha indagato. E ha nascosto la sentenza. Ora la federazione invita le famiglie a denunciare, ma se non agisce a cosa servono le denunce?»
Che ambiente è quello della ginnastica?
«Spero sia migliore di quello vissuto da mia figlia e dalle ragazze che stanno denunciando. Ma tante allenatrici avrebbero bisogno di un serio e costante confronto con uno psicologo: il passaggio dal ruolo di atleta a quello di coach senza nessuna preparazione può essere traumatico».
Come sta sua figlia?
«Adesso bene: dopo un anno di pausa ha provato a riaffacciarsi in palestra e ora pratica con soddisfazione l'atletica leggera».
Avete deciso di presentare un esposto penale. A quale scopo?
«Che non succedano più fatti del genere, che ci siano controlli costanti sulle palestre della ginnastica. E che chi ha schiaffeggiato mia figlia non torni mai più ad allenare».
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