DAGOREPORT – DANIELA SANTANCHÈ NON È GENNARO SANGIULIANO, UN GIORNALISTA PRESTATO ALLA POLITICA…
Giancarlo Dotto (Rabdoman) per Dagospia
Ora lo faccio io l’appello ai tifosi. Andrò domenica all’Olimpico con la scusa del derby solo per fotografare la gigantesca e soffocante barzelletta del “fino a dove può spingersi l’insulsaggine degli umani”. Il deserto. Dei cervelli, prima di tutto. Non tutti i paradossi sono eccitanti. I giocatori che supplicano i tifosi: “tornate allo stadio, abbiamo bisogno di voi!” è un paradosso da mondo inferiore. Il mondo che si capovolge.
La Madonna che prenota un volo in classe turistica per non perdersi il miracolo delle lacrime di Barbie a Miami. Siamo alla frutta e la frutta sa di marcio. I tifosi delle curve italiote sono diventati da tempo un mostro e questo mostro si chiama “soggettività”. Hanno smesso di adorare le loro squadre per adorare se stessi. Niente o tanto di male. Ma non tiriamo più in ballo cose come “l’amore per la squadra”. Buttiamo nel cesso degli anacronismi slogan come “la Roma è una fede” (ma può essere Lazio, Milan, Inter, Cavese o qualunque altra).
La fede, a meno che non sia Emilio, è un dogma della mistica. La persona di fede non sta nella storia, non litiga o civetta con le istituzioni, non dialoga, non chiede l’abolizione di questa barriera o di quel filo spinato. Non protesta contro prefetti e questori. La persona di fede non chiede altro che cancellarsi nella devozione per la cosa amata, squadra, donna o divinità che sia. La sua posizione è genuflessa, meglio se sulla dura pietra. Lo stadio dei fedeli è una Scala Santa da vivere ogni santa domenica come un glorioso supplizio, strafottendosene di qualunque incidente o provocazione, che sia il risultato o il questore avverso.
Il tifoso di fede sta con la sua squadra anche se lo impalano su per il tunnel anale. Non arretra e non diserta di fronte a nulla. Mi mettono le barriere? E io, tifoso di fede, me ne frego, strapopolo la curva, chiedo dieci, cento, mille barriere. Di più, chiedo di cospargere la curva di chiodi e polvere pruriginosa.
Chiedo le cavallette. Chiedo che mi venga fatto indossare il cilicio alle porte dello stadio, dopo essere stato perquisito anche sotto le ascelle e non avendo mostrato l’unico documento che mi fa inaccessibile e imperquisibile, la mia dannata e assurda fede. Questa è grandezza. Questo farebbe il vero tifoso di fede, un gesto rivoluzionario che lo colloca fuori dalle miserevoli trame della storia e degli uffici della burocrazia.
La persona di fede, non esistendo di suo, ha altro da fare e da venerare che cadere preda della sindrome da identità offesa. Il vero tifoso, il tifoso di fede, non lascerebbe mai la sua squadra sola, meno che mai il giorno del derby, nell’anno in cui, basta annusare l’aria, può accadere qualcosa di grandioso. Nessuno può vietare nulla al tifoso di fede.
Il tifoso senza fede, invece, sta lì torvo e meschino a spulciare i decreti e i divieti che lo riguardano, arronzando una sua presunta antologia del gesto epico. Non sono De Rossi, Totti, Florenzi in quanto Roma o qualunque altra squadra che devono andare dai tifosi e chiedere di essere amati, ma sono i tifosi di fede che vanno e stanno con loro, in qualunque occasione, per testimoniare che quando si ama non discute e, soprattutto, non si diserta.
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