DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
Gaia Piccardi per il “Corriere della Sera”
Se Matteo Berrettini è stato il primo a esplodere con fragore (anno di grazia 2019) e Jannik Sinner è rotolato giù dalle montagne dell'Alto Adige verso il mare preceduto dalla fama di predestinato (qualsiasi cosa voglia dire), della nouvelle vague azzurra Lorenzo Musetti è il ragazzo a cui gli dei del tennis hanno assegnato più talenti, così tanti che per mettere ordine in quella moltitudine di scintille scoppiettanti è servito tempo, come a un supereroe terrestre che debba imparare a gestire i suoi poteri:
«Ho così tante soluzioni nel braccio che spesso vado in confusione e mi confondo... Matteo e Jannik ne hanno tre o quattro che fanno davvero molto male e non sbagliano mai» spiegava al Corriere Lorenzo («Per gli amici Lore, mai Lollo, guai, è tremendo, nessuno mi chiama così; a volte Muso, più spesso Muse») all'inizio di questo viaggio meraviglioso che l'ha portato, a 20 anni, dopo aver battuto il temibile Carlos Alcaraz (n.4 del mondo) nella finale di Amburgo, sulla soglia dei top 30 del ranking, terza forza made in Italy di un tennis terremotato dagli italian boys.
Figlio di una terra di confine, toscano di Carrara e pregiato come il marmo delle cave dove lavora papà Francesco («Mio padre me l'ha sempre detto: fare l'operaio non è un mestiere per tutti. Studiavo: mi piaceva, ero bravino. Avrei fatto l'Università però il tennis mi è sempre riuscito facile»), ma ancorato a La Spezia dove ha imparato a giocare con il maestro giusto («Simone Tartarini: ci siamo capiti da subito, c'è un rapporto stupendo. È stato baby sitter in fase di crescita, educatore, secondo padre...
Mi sento in debito con lui»), Lorenzo è il futuro che ci traghetterà senza drammi oltre la trimurti Nadal-Djokovic-Federer (citati in rigoroso ordine di numero di titoli Slam: 22-21-20), lo spirito pagano della Santissima Trinità de noantri , Berrettini-Sinner-Musetti, già capace di ispirare una nuova generazione di arrembanti giovinastri.
Partiamo dalla fine, Lorenzo. Il sapore del primo titolo Atp della carriera è stato dolce come se lo immaginava?
«Ho avuto poco tempo per metabolizzare: il giorno dopo la finale di Amburgo sono partito con Alcaraz per Umago su un aereo privato messoci a disposizione dall'organizzazione del torneo. Quel sapore lo sto apprezzando di più ora, a freddo, mentre sono qualche giorno al mare con i miei prima della lunga trasferta americana. In Germania ho dovuto tenere la mente più sgombra possibile, vietato cullarsi sugli allori».
Beh ma nemmeno un brindisi?
«Ho finito tardi, quando sono uscito dal circolo tutti i ristoranti erano già chiusi. Con Simone, il mio coach, ci siamo rifugiati in albergo: abbiamo stappato una bottiglia, fatto un brindisi sobrio, ed è finita lì. Ero stravolto».
Adriano Panatta sostiene che la felicità, quella pura e selvaggia che ti travolge come un'onda di piena, dura sì e no trenta secondi. Poi arriva tutto il resto: crollo dell'adrenalina, malinconia, solitudine, vuoto, spleen da post-trionfo.
carlos alcaraz lorenzo musetti
«Adriano ha ragione. La felicità dura poco. Ho provato un lampo di gioia furibonda subito dopo il match point con Alcaraz, l'adrenalina della battaglia è confluita tutta lì insieme alla sofferenza, al nervosismo, a qualsiasi emozione abbia provato in tre ore di partita. A ripensarci bene è stata più liberazione che felicità, come se di colpo mi fossi sbarazzato di tutte le catene che avevo nello stomaco».
Come si batte il numero 4 del mondo al terzo set dopo essersi fatto annullare cinque match point nel secondo?
«Evolvendosi, crescendo, con una combinazione di lavoro e fortuna. Nel mio caso è stato un percorso graduale, però sentivo che il botto era nell'aria. Doveva esserci una prima volta anche per me: è arrivata ad Amburgo, con Alcaraz che fuori dal campo è anche un amico, giocando la partita più bella della mia carriera».
carlos alcaraz lorenzo musetti
La dedica a nonna Maria, in perfetta tradizione italica.
«Nel suo scantinato, a Carrara, è cominciato tutto. C'era uno spazio ampio, dove non correvo il rischio di fare danni con la pallina. Il mio primo maestro è stato il muro di nonna Maria, che di fronte alla dedica si è commossa. Ho perso il conto delle ore che ho passato là sotto con la racchetta e il mio babbo».
Babbo a cui si deve, prima ancora che a Tartarini, l'eccellenza di un rovescio monomane.
«Gioco il rovescio a una mano da quando avevo 9 anni: piaceva a mio padre e mi è venuto spontaneo. Simone piuttosto ha cercato di svecchiarmi: quando ci siamo incontrati facevo troppe azioni in back, troppe smorzate. Mi ha incanalato verso un tennis più moderno. Come dice lui: Lore, prima viene la torta, poi la ciliegina!».
La sua geografia degli affetti?
«Sono figlio unico. Nel mio cuore ci sono la famiglia, papà Francesco, mamma Sabrina, nonna, Simone e gli amici d'infanzia: siamo sei, tutti carrarini, ci siamo soprannominati "l'allegra combriccola". Loro studiano, vanno all'Università, uno sta per partire per gli Usa. È il gruppo storico: sono i miei primi tifosi».
Se invece dovesse raccontarsi per oggetti?
«Avevo 16 anni, in casa di nonna ho trovato un vecchio anello che apparteneva a mio zio. L'ho provato, mi è piaciuto. L'ho fatto pulire e stringere: da quel momento non l'ho più tolto. La storia della catenina che ho al collo è simile: come pendenti ha un crocefisso e un peperoncino, i miei portafortuna. Regalo di nonna».
C'è anche un nonno-chiave. Renzo.
«Per anni, in pensione, mi ha fatto da tassista tra Carrara e La Spezia. Secondo lui non giocavo mai bene abbastanza. Mi arrabbiavo ma ora mi rendo conto che mi ha dato una motivazione in più per migliorarmi. È morto mentre ero a un torneo under 12 in Francia: sulla tomba ha voluto un sigaro toscano, la sua passione»
Non le è mai stato dato un ultimatum dai suoi genitori: entri nei top players entro i vent' anni oppure ti rimetti a studiare?
«Mai. Il tennis è diventato una priorità molto presto ma i miei sono sempre rimasti tranquilli.Forse avevano la certezza che sarei riuscito a combinare qualcosa di buono. Da questo punto di vista sono fortunato: ho visto tanti genitori rovinare il divertimento del tennis ai figli, rendendolo un obbligo anziché un piacere. I miei, anzi, mi hanno sempre spinto a investire nei miei sogni. Mamma Sabrina l'ho ricompensata con la maturità da privatista, ci tenevo tanto anch' io».
È vero che, per scaramanzia, mamma, papà e nonna vedono le sue partite ognuno per conto suo?
«Solo le finali, sì. Avevano cominciato così e hanno coltivato l'abitudine. Babbo era al mare, non ha voluto vedere nemmeno un punto però aveva degli amici che lo tenevano informato. E alla fine l'hanno buttato in acqua!».
Se dovesse dire qual è stato il passaggio di crescita che le ha permesso il salto di qualità per vincere ad Amburgo, Lorenzo?
«Nella vita ognuno ha il suo percorso, anche imparare dagli errori e dalle cose negative è importante. In fondo, in campo io porto sempre me stesso: la persona, prima del tennista. Quello che ti forgia fuori, ti accompagna dappertutto.L'anno scorso mi ha cambiato molto».
L'exploit incompiuto al Roland Garros con Djokovic, poi una sfilza di uscite al primo turno (Giochi di Tokyo inclusi) e una delusione d'amore. Si cresce anche così.
«Un periodo difficile, un insieme di cose che si sono incrociate tra tennis e vita privata. È stata una stagione di alti e bassi, con i bassi che si sono prolungati troppo. Ho lavorato molto con pochi risultati: è stata dura, però bisogna avere pazienza. Mi ha aiutato lo psicologo, con cui ho scoperto e tirato fuori certi lati di me».
Il lato guerriero, per esempio, quello che le ha permesso di tenere viva l'Italia di Davis a Bratislava a marzo contro la Slovacchia.
«Un esordio in azzurro incredibile, pieno di difficoltà: sul 2-2, il c.t. Volandri mi ha chiesto di entrare in campo per conquistare il punto decisivo per partecipare al girone di Bologna. Una vittoria che ha fatto bene a me e alla squadra. L'esperienza in Davis, d'altronde, è fondamentale: i momenti di gruppo sono quelli che aiutano a crescere, la condivisione con Matteo e Jannik per me è importante».
È mai stato invidioso dei loro successi?
«Mai. Sono stato contento, anzi. Mi hanno spinto a fare di più e meglio, a darmi un traguardo, a non accontentarmi. Li devo ringraziare di essere arrivati prima, di avermi mantenuto in un cono d'ombra permettendomi di lavorare tranquillo e di avermi coinvolto emotivamente nelle loro vittorie. E credo che il nostro esempio stia facendo bene a tutto il movimento: Zeppieri e Agamenone in semifinale a Umago, Cobolli, Passaro e il giovane Nardi, che sta arrivando».
Il cappellino con la visiera all'indietro è una citazione? «Una necessità: nasce con i capelli lunghi, alla Borg, è una questione di vita o di morte. Ho provato anche bandana e coda, ma non funzionano altrettanto bene».
Lo Slam dei sogni?
«Wimbledon ha un fascino ineguagliabile, ma dovessi vincere il prossimo, l'Open degli Stati Uniti, andrebbe bene lo stesso!».
Un grande ex come super-coach da affiancare all'allenatore storico è uno scenario che potrebbe riguardarla?
«Non è una tappa obbligatoria, dal mio punto di vista. Ho già un aiuto in più da Umberto Rianna, tecnico federale, una collaborazione che intendo coltivare sempre di più».
Anche se si rendesse libero un certo Roger Federer, idolo d'infanzia?
«Volentieri ma credo di non potermi permettere di sostenere il suo salario...».
E l'amore, Lorenzo, a 20 anni vissuti a trecento all'ora è un dettaglio o una priorità? «Credo nel colpo di fulmine: non ho una donna ideale, mi piace la classica bellezza mediterranea ma mi deve colpire fin da subito. Sono più un tipo da intuizioni, che da ragionamenti».
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