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Pietro Scibetta per “La Stampa”
Entra in campo nel secondo quarto, con la sua squadra sotto. Riceve palla dopo una stoppata subìta dalla leggenda Tim Duncan: una finta, il palleggio per mettersi in ritmo e il tiro, pulito, per il -5. Con grande calma, persino eleganza. Marco Belinelli ha segnato il primo dei due tiri messi a segno nella decisiva gara-5 della finale Nba tra i suoi San Antonio Spurs e i campioni uscenti, i Miami Heat.
Una serie dominata dai texani dopo la sconfitta interna nella seconda partita. Piallati gli Heat nelle due gare giocate in Florida, ri-piallati nel 5º episodio (104-87, 4-1 finale) dopo che un LeBron James spaventoso li aveva portati avanti 22-6 in avvio di gara. Ma questo era il momento di San Antonio, che ha usato la sconfitta dell’anno scorso, sempre contro Miami, come la più forte delle motivazioni.
«Nessuno ha mai creduto in me in questi anni. Alla fine ho vinto», dice Belinelli avvolto dalla bandiera tricolore. E scoppia a piangere. È il primo giocatore italiano ad aver giocato una finale Nba ed è anche il primo italiano ad averla vinta. Nessuno dei nostri rappresentanti tra i professionisti americani, a oggi, lo merita di più.
Scelto con il numero 18 dai Golden State Warriors nel 2007, Belinelli ha affrontato stagioni durissime in California e poi a Toronto (giocando insieme con Andrea Bargnani), prima di riemergere con sudore e fatica a New Orleans. Il suo allenatore, lì, lo definì un mostro. Era Monty Williams, scuola Spurs. Non può essere un caso. E non lo è, perché la perfetta organizzazione messa in piedi a San Antonio da coach Gregg Popovich e dal general manager RC Buford «rifornisce» l’intera Lega di allenatori e dirigenti. Agli Spurs si vince.
Ed è per questo che Belinelli, dopo un anno a Chicago, ha fortemente voluto far parte degli Speroni. Anche guadagnando meno di quanto avrebbe potuto. Dopo Warriors, Raptors, Hornets e Bulls, voleva avere la chance di giocare per vincere. A Chicago gli era stata preclusa (anche) dall’infortunio che ha messo fuori gioco Derrick Rose, leader tecnico ed emotivo della squadra. Ma lì ha dimostrato di poter far parte di un sistema di gioco molto rigoroso, con regole difensive ferree e il concetto di squadra davanti a qualsiasi altra cosa.
La palestra ideale prima di San Antonio. Dove ha saputo guadagnarsi la stima di leggende come coach Popovich e come Tim Duncan, che dal 1997 a oggi (quando entrò nella Nba come prima scelta assoluta) ha rappresentato sempre e solo San Antonio. Ed è il tipo di leader che fa al caso di Belinelli: uno che «parla» con l’esempio, anziché usare la voce.
O di altri fenomeni come il francese Tony Parker, l’argentino Manu Ginobili (che Beli aveva visto giocare a Bologna, sponda Virtus, quando lui era ancora nel settore giovanile). Tanti saluti a chi dopo i due campionati iniziali con Golden State (solo 7,3 minuti di media da «rookie», 42 gare nella 2ª stagione) e la negativa esperienza di Toronto diceva che non era da Nba. A un certo punto ci credeva solo lui, o quasi. Ora riporta in alto l’Italia del basket. E a San Giovanni in Persiceto in centinaia hanno tirato l’alba per il Beli.
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