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Gian Antonio Stella per il “Corriere della Sera”
«Per mio papà e mia mamma son sempre lo stesso. Mi trattano sempre allo stesso modo. Come un bambino».
Leo Messi l' aveva già detto in un' intervista a Sette . L' ha ripetuto ieri in tribunale, a Barcellona, dov' è sotto processo con l' accusa d' avere frodato il fisco spagnolo per almeno 4 milioni di euro nel solo periodo 2007-2009: «Faceva tutto mio papà. Io firmavo e basta».
«Vattene a giocare a Panama, stronzo!», gli ha urlato un passante. Lui, pare, ha chinato la testa. E per tutta l' udienza è rimasto silenzioso e remissivo.
Idolatrato da tanti tifosi disposti a perdonargli tutto, non può pensare che lo assolva la Spagna intera: gli ultimi dati parlano d' una disoccupazione al 21%, di consumi ancora in calo dell' 1%, di un deficit 2016 che toccherà il 3,9% del Pil.
Non bastasse il paese sta per tornare alle elezioni a pochi mesi dalle ultime, vanificate da interminabili trattative finite nel nulla. È chiaro che, con questi nuvoloni sulla testa, sapere che un calciatore che già guadagna oltre 65 milioni di euro l' anno cerca pure di evadere il fisco è insopportabile.
Vale per gli spagnoli, vale per tutti coloro che faticano a arrivare a fine mese.
È imperdonabile, se le accuse saranno provate come implicitamente sembrano ammettere le imbarazzate autodifese dei suoi stessi avvocati, Leo Messi.
Proprio perché amatissimo da mezzo mondo e simbolo di uno spettacolare riscatto sociale con l' ascesa dal miserabile barrio La Bajada di Rosario alla progettata villa hollywoodiana a forma di pallone adagiata al centro di un campo da calcio per metà prato e per metà piscina, ha verso i tifosi sparsi per il mondo responsabilità supplementari. Gli piaccia o no, deve dare l' esempio. E non può pensare di cavarsela mandando una maglietta al bimbo afgano che giocava tra le macerie indossando la borsa di plastica bianco-celeste e la scritta «Messi» fatta col pennarello.
Men che meno può pretendere che sia accettata la sua tesi: «Ero totalmente all' oscuro delle operazioni fiscali di mio padre Jorge e non ho mai partecipato in alcun modo alle decisioni prese. Io pensavo solo a giocare». O ancora: «Firmavo contratti perché mi fidavo di mio padre e mai pensavo che mi potesse ingannare. Non mi sono mai interessato a questi problemi, non sapevo che stavo infrangendo la legge».
È vero però che «la Pulce» si è spesso dimostrato un fantastico fuoriclasse e insieme un ragazzo fragile, che fatica a cogliere la complessità del mondo. Mai riuscito ad andare oltre il diploma di terza media nonostante le premure del Barcellona che per aiutarlo a crescere non fece un diseducativo contratto a lui, bambino, ma preferì assumere il papà.
Mai letto un solo libro in tutta la vita salvo la «Vita di Maradona». Mai avuto il minimo interesse a vedere Recanati, da dove i nonni partirono per l' Argentina pregando la Madonna di Loreto, mai sentita nominare. Mai letto niente di un concittadino come Che Guevara.
Mai saputo dell' esistenza del più grande scrittore di calcio, l' argentino Osvaldo Soriano.
Mai visti video con Sivori o Pelè. Mai imparato il tango. Insomma: un genio del pallone con gli interessi culturali di un pulcino.
Per questo, nella convinzione che il nostro amato Leo abbia davvero firmato sempre senza leggere una riga, sono ancora più colpevoli (sempre che le accuse siano provate) il padre Jorge Messi, operaio siderurgico proiettato nel firmamento dei milionari, e le persone alle quali aveva affidato i rapporti tra il suo pulcino dalle uova d' oro. Loro sì, sapevano. Loro sì.
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