DAGOREPORT - BLACKSTONE, KKR, BLACKROCK E ALTRI FONDI D’INVESTIMENTO TEMONO CHE IL SECONDO MANDATO…
Alessandro Giudice per il Corriere dello Sport
Si può anche prendere come notizia positiva, per il nostro calcio, l’allargamento a 8 squadre (di cui 5 nella nuova super Champions) dell’area di partecipazione alle competizioni europee, ma non devono sfuggire effetti collaterali importanti.
L’afflusso di soldi dall’Uefa, di cui beneficerà il 40 per cento della Serie A, rischia di allargare un gap competitivo di cui il nostro campionato già soffre: i 77 punti tra l’Inter campione e la Salernitana fanalino di coda costituiscono già il divario più ampio tra i campionati Big-5. In Serie A la quota-Europa è scesa a 60 punti: quelli fatti dalla Fiorentina, distante 34 punti dalla vetta.
Dov’è il problema, o dove rischia di essere? L’equilibrio competitivo è un valore prezioso per un torneo: ne definisce l’appetibilità, di conseguenza il valore dei diritti tv che in A è alquanto depresso.
Alla lunga, un campionato poco interessante produce meno ricavi per tutti. Alcuni club sperano, ovviamente, di recuperare coi proventi Uefa, ma questi rappresentano anche un incentivo pericoloso perché la corsa a guadagnarsi il posto al sole stimola i club a spendere più del necessario, innalzando la struttura dei costi e rendendo, alla lunga, meno appetibile il mercato italiano per gli investitori esteri: gli unici in grado di apportare capitali. Sembra, ma non è, una fissazione da economisti.
Uno degli ingredienti nell’ultratrentennale cavalcata della Premier come format di successo tra tutti i campionati europei è l’equilibrio nella distribuzione dei diritti domestici. Il rapporto tra il club inglese che incassa la quota più alta, rispetto al valore mediano della Premier, è 1,2. In Serie A siamo a 2,8 contro una media europea di 2,3. Peggio di noi, nei grandi campionati, fa solo la Liga (3,2). Soprattutto, confrontando il rapporto attuale con dieci anni fa, la Premier ha reso più “democratica” la distribuzione, mentre noi l’abbiamo resa leggermente meno equilibrata.
Se i ricavi Uefa continuano a crescere con velocità che nessuno dei campionati nazionali riesce a seguire, è perché l’attenzione degli spettatori (soprattutto giovani) si sposta gradualmente verso partite di coppa sempre più affascinanti, seguite da coperture televisive di alto livello. Difficile competere con partite mediocri, spesso poco incerte, e in impianti vecchi, di un campionato già deciso quasi sempre a febbraio.
adriano galliani foto mezzelani gmt109
Se il peso economico si sposta dai ricavi domestici (sempre molto statici e bloccati per cinque anni) a quelli europei, riversati ai club qualificati con una logica che esclude chi ne resta fuori, forse è il momento di ripensare i meccanismi interni di distribuzione, fissati dalla legge Melandri, di quasi vent’anni fa.
Tenuta immutata a regolamentare un’industria ormai rivoluzionata dalle pressioni competitive del mercato internazionale.
Senza una riflessione su questo tema, ed eventualmente una ricalibrazione del meccanismo nel senso di aiutare le piccole, magari anche riducendo contemporaneamente il numero di squadre, rischiamo una Serie A più squilibrata e sempre meno interessante con club inevitabilmente stimolati a privilegiare le partite infrasettimanali, molto più redditizie perché molto superiore è la resa economica per minuto giocato.
Tre anni fa un movimento di tifosi, sostenuto dalle pressioni di alcuni governi, bocciò la Superlega per scongiurare l’impoverimento dei campionati nazionali che ne sarebbe scaturito e il danno inevitabile per la massa degli esclusi.
Oggi l’Uefa è costretta, giocoforza, a seguire l’interesse dei top club europei disegnando competizioni con più partite, più sponsor, più diritti tv per chi vi partecipa e così spostando l’asse economico dai campionati alle coppe.
Se questa dinamica proseguirà – e non vi è ragione per pensare che si arresti – non si può prevedere un futuro roseo per il campionato. Sarebbe assai utile provvedere.
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