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1. RANIERI E IL SUO LEICESTER
Mario Sconcerti per il “Corriere della Sera”
Leicester non arriva a 300 mila abitanti, è la decima città inglese, tredicesima nel Regno Unito. Non è bellissima, piove per molti giorni, l' umidità ieri era al 93%, il mare del Nord è vicino, tira spesso un vento freddo. Ha qualche monumento, come il Vecchio Castello e la Torre dell' Orologio, ma nel mondo tutti vi diranno che Leicester è la sua squadra di calcio. In quasi 140 anni il Leicester non ha mai vinto un campionato, solo tre coppe e sei campionati di B.
Ora è in testa alla classifica dall' inizio, senza un giocatore importante, contro avversari che non l' hanno mai degnata di uno sguardo. E un vecchio tecnico italiano, Claudio Ranieri, che nessuno ha mai ignorato, ma pochi hanno amato per quello che era diventato, un formidabile maestro di calcio normale. Nel calcio il problema è la media a lungo termine. Non conta se arrivi terzo il primo anno di carriera, conto cosa hai fatto nei venti successivi.
È lì che è nascosto il dettaglio. Ranieri ha allenato chiunque e dovunque (Napoli, Fiorentina, Roma, Inter, Juventus, Valencia, Grecia, Chelsea, Atletico Madrid). È arrivato a una semifinale di Champions quando il Chelsea era una squadra normale, ha portato il Cagliari dalla C alla A, è arrivato 2° e 3° in Italia. Ha vinto poco, ma c' è sempre stato. Ora è arrivato il Leicester, una classica storia di calcio nell' Inghilterra dove tutti sono ricchi. Una città piccola, una squadra che potrebbe essere l' Atalanta o il Chievo, un attaccante, Vardy, che la mette dentro comunque si giri. Qualcosa di miracoloso per chi crede ai miracoli. Per Ranieri è stato tutto quasi automatico.
«La stagione precedente avevano fatto un ottimo finale, correvano molto, davano l' idea di star bene. Ma ho capito che i giocatori avevano paura del tatticismo italiano. Il calcio di un italiano vuol dire questo, tattica, cercare di impossessarsi della partita seguendo gli schemi dell' allenatore. Parlare tanto. Non mi sembravano convinti, nemmeno io lo ero. Ho ammirazione per chi costruisce moduli di gioco nuovi, ma ho sempre pensato che un buon tecnico debba impostare la squadra sulle caratteristiche dei suoi giocatori».
E allora? Cosa successe?
«Dissi che mi fidavo di loro, che avrei parlato pochissimo di tattica. Per me l' importante era che corressero tanto».
E i ritiri, la preparazione atletica?
«Secondo me hanno meno importanza in Inghilterra. Qui si allenano con grande intensità. E le partite sono sempre molto combattute. La mia idea è che prima di tutto i giocatori abbiano bisogno di recuperare, poi di allenarsi».
Sembra un' eresia compiaciuta.
«Forse lo è, non lo so. Credo naturalmente nell' allenamento, ma credo anche che tutto sia relativo. I miei ragazzi si allenano molto, ma non troppe volte. In Inghilterra il gioco è ad alta intensità, sfinisce. C' è più bisogno di recuperare. Noi giochiamo il sabato, la domenica è libera per tutti. Il lunedì riprendiamo in leggerezza, come i lunedì italiani.
Martedì allenamento duro, mercoledì riposo assoluto.
Giovedì altro allenamento duro, venerdì rifinitura, sabato di nuovo partita. Due giorni almeno fuori dal pallone. È questo il patto del primo giorno, mi fido di voi. Io vi spiego un po' di calcio ogni tanto, voi mi date sempre tutto».
Sembra una teoria di Zeman alla rovescia...
«Non lo so e non credo sia una formula perfetta. Il calcio non ha regole universali. Conta prendere il meglio dal gruppo che hai. Qui si sentono tutti partecipi, giocar male significa tradire gli altri. Sono persone libere, consapevoli, hanno delle responsabilità. Si divertono a mantenerle, a sopportarle.
Ho un giocatore che viene ogni mattina da Manchester, uno arriva da Londra. Non sarebbe pensabile in Italia, ma nemmeno in Inghilterra. A Leicester si fa perché il gruppo se lo può permettere. A volte siamo a tavola e mi spavento per quanto mangiano, mai visto giocatori così affamati. Le prime volte mi sorprendevo, poi ho imparato a sorridere. Se corrono così tanto, mangino quello che vogliono».
Di cosa ha bisogno il giocatore inglese rispetto a uno che gioca in Italia?
«Credo di divertirsi. In Italia il calcio fa fatica a essere un divertimento, credo anche ci si alleni con meno convinzione. È più un dovere. Qui c' è la forte consapevolezza di essere giovani, sani e di fare un bel mestiere. Sprecarlo sarebbe da fessi. Quando si allenano si impegnano come in partita, non ho mai dovuto riprendere uno per pigrizia. Poi vogliono tranquillità e rispetto, non li devi prendere di punta. Se vuoi far tu la prima donna non ti perdoneranno».
Pensa al Chelsea di Mourinho?
«No. Penso a quello che vedo. In Inghilterra si gioca come se fosse sempre un derby. Ho visto Milan-Inter, quella è stata una partita all' inglese. Corsa, botte, squadre un po' lunghe, tanto agonismo, una bella partita che alla fine è scappata di mano all' Inter. Ma un calcio non italiano.
Io dico sempre ai miei: cercate il vostro fuoco dentro. Un' occasione così non capiterà più. Cercate quel fuoco, non vergognatevi. E loro non si vergognano, anzi, pretendono di sognare. Lo so che non funziona sempre così, ma nessuno sa come funzioni davvero. Noi abbiamo trovato qualcosa che va da solo, dobbiamo rispettarlo fino in fondo».
Si può paragonare a qualcosa questo Leicester?
«È il risultato che ho sempre cercato, metà gioco e metà consapevolezza di un traguardo. Diamo un significato a quello che facciamo. Poco mestiere, nessuno di noi pensa sul serio di lavorare nella vita, altrimenti ci alzeremmo sempre stanchi.
Alla fine della carriera da giocatore ho trovato una squadra così: era il Catanzaro di Gianni Di Marzio, di Palanca, Silipo e gli altri. Capisco non sia un grande esempio, meglio Guardiola. Ma quella era una squadra come il Leicester, un gruppo di amici che viveva insieme».
(Piccolo inciso: Gianni Di Marzio dice che Ranieri per dieci anni ogni estate ha portato in giro per il Mediterraneo sulla sua barca i suoi amici di allora. E che ancora oggi, nella sua villa in Toscana, si fanno grandi cene di squadra).
Vincerà questo campionato?
«Non lo so, ma è già fantastico aver meritato la domanda. Quando sono arrivato il presidente mi chiese 24 punti entro Natale. Ne abbiamo fatti 37 o 39, non ricordo. E ora siamo ancora lassù. In un tempo in cui contano solo i soldi, credo si sia una speranza per tutti».
L' Inghilterra ha il più grande campionato del mondo, ma fa fatica a trovare suoi grandi giocatori. Perché?
«Qui hanno una grande organizzazione a livello giovanile. Hanno le accademie federali, selezionano, controllano come ti occupi dei giovani. Ogni due-tre anni danno una valutazione tecnica e in base a quella premiano. Vengono investiti un sacco di soldi, a volte nemmeno li capisco.
Noi dobbiamo mettere 5-6 milioni l' anno, a parte quelli per i giocatori. Una volta che ho fatto cinque campi sportivi, che ho preso i dirigenti e il personale, costruito la struttura d' accoglienza, cosa faccio ancora? Il lavoro resta».
C' è il problema della qualità.
«Una cosa è vera. Sono inglesi, in fondo in fondo tirano di più al fisico che alla tecnica. Noi ci innamoriamo subito del mingherlino talentuoso. Il loro calcio è velocità e forza. Potenza. Quando si trovano davanti un ragazzo alto 1,90 pensano subito a un centravanti.
Noi cerchiamo sempre il dieci. Ma come organizzazione sono in anticipo».
2. SCARTI, VECCHI, INVASATI: GLI AMICI DI LEICESTER RINATI PER LO SCUDETTO
Andrea Sorrentino per “la Repubblica”
Se è un miracolo, allora per seguirne le tracce conviene infilarsi nella cattedrale. Gotica, ovvio. Sferzata da vento e pioggia sotto un cielo nero, come si conviene nelle Midlands. È lì da un millennio, ma da poco ospita un inquilino che ha cambiato la storia del calcio a Leicester, dicono i devoti. Il corpo di Riccardo III, il re che avrebbe dato il suo regno per un cavallo e invece non ebbe il cavallo né una degna sepoltura per mezzo millennio, riposa qui, del resto morì nei dintorni, in battaglia, nel 1485.
Ne trovano i resti per caso, scavando in un parcheggio, poi gli esami confermano: è proprio lui, l’ultimo dei Plantageneti. Il funerale in pompa magna lo fanno dieci mesi fa, e occhio alle date: il 26 marzo c’è la cerimonia di sepoltura, con l’arcivescovo di Canterbury e il Duca di Gloucester; il 4 aprile il Leicester City, ultimo in Premier League e senza vittorie da gennaio, batte il West Ham e inizia una striscia di 7 successi in 9 partite che gli regala la salvezza.
A luglio i bookmakers pagano 5000-1 la vittoria in campionato delle “Foxes” e danno Claudio Ranieri come primo esonerato in Premier. Sei mesi dopo, il Leicester di Ranieri è in testa con 5 punti sulle seconde a 13 turni dalla fine, è il favorito per gli allibratori (7/4). Da quando Riccardo III è stato sepolto, il Leicester ha vinto il 65% delle sue partite.
«I believe in miracles», cantano qui, e tutto acquista un senso. Con la morte di Riccardo III finì il medioevo inglese, con la sua sepoltura è iniziato il Rinascimento delle Volpi, che in 132 anni di storia hanno vinto al massimo tre Coppe di Lega.
Ma i miracoli hanno bisogno di uomini che li rendano possibili. Questa è una storia di uomini sbagliati nel posto giusto, di un maestro elementare che capisce di calcio come pochi, di un allenatoreche cavalca la tigre senza volerla addestrare, e pure di un’orgia in Thailandia da cui tutto scaturì.
Quella in cui è coinvolto a giugno James Pearson, figlio dell’allenatore del Leicester e giocatore a sua volta, in tournée in Thailandia (paese d’origine del proprietario, Vichai Srivaddhanaprabha). Pearson partecipa a un’orgia con due compagni poi posta il video relativo, con insulti razzisti alle ragazze coinvolte. Scandalo. Il proprietario chiede scuse che non arrivano, così licenzia in tronco i tre giocatori e pure l’allenatore, cotanto padre.
A luglio il Leicester cerca un allenatore in fretta, alla fine rimangono in tre: Ranieri, suggerito dal manager italiano Franco Granello, Hiddink e Laudrup. Al colloquio va meglio Ranieri, l’incarico è suo. Gary Lineker, che qui giocò a inizio carriera, è perplesso: «Claudio Ranieri? Really?». Proprio così.
Ranieri si ritrova a gestire una squadra anzianotta, senza grandi nomi, anzi parecchia gente è all’ultima o penultima chance. Li ha reclutati Steve Walsh, ex maestro scolastico, mai stato calciatore professionista ma formidabile nello scovare talenti nascosti o scarti altrui, nel capirne motivazioni e attitudini, ha lavorato 16 anni al Chelsea.
Ora si parla da mesi di James Vardy, 29 anni, il capocannoniere che ancora nel 2012 lavorava in fabbrica e giocava tra i dilettanti. Ma Walsh conosce pure il mercato internazionale, ed è in Francia che scova l’algerino Mahrez, lo paga 400mila sterline al Le Havre, ora vale cento volte tanto grazie ai suoi dribbling, ai suoi 13 gol e 10 assist, con Ranieri che ha saputo disciplinarne il talento selvaggio. Ha 24 anni come Mahrez il franco-maliano Kanté, preso dal Caen a luglio per 8 milioni, lo chiamano il nuovo Makelele ma ancora non è in nazionale.
Di non nazionali ce ne sono diversi, nella squadra che domina la Premier. Il terzino Danny Simpson non lo è: 29 anni, vivaio Manchester United mai sbocciato, mille intemperanze fuori dal campo. Fu nazionale tedesco solo da giovane Robert Huth, difensore, sabato ha segnato due gol al City: da bambino faceva l’attore per un telefilm della Ddr, da ragazzo è passato dal Chelsea senza incidere, ma lì conobbe Ranieri.
Il suo compagno di reparto è il giamaicano Wes Morgan, oltre 400 partite nel Nottingham Forrest, a 32 anni nessuno lo credeva capace di una stagione simile. Poi ci sono i 29 anni di Fuchs, nazionale austriaco, i 29 di Peter Schmeichel, portiere danese e figlio d’arte, o i 29 di Shinji Okazaki, il giapponese che preferisce il fish&chips alla pizza che tutti vanno a mangiare insieme a Ranieri, nelle occasioni speciali.
leicester video porno di tre calciatori
Gli 11 che hanno battuto 3-1 il Manchester City hanno otto nazionalità diverse, ma sono un gruppo. Unitissimi. Sempre in giro insieme per la città. In campo, sono un inno al mutuo soccorso e all’agonismo: li muove e li alimenta il sogno che prende forma, la fame antica di chi ha sempre visto banchettare gli altri e temeva di essere escluso per sempre.
Adorano il loro manager italiano, che ha avuto il buon senso di non modificare le loro bizzarre abitudini alimentari e gli stili di vita, li ha solo organizzati meglio in difesa, ha scelto le parole giuste, gli ha voluto bene e se n’è fatto volere, poi li ha mandati in campo. Non hanno un regno, solo un grande appetito. Il loro regno semmai è la Premier, e arrivati a questo punto non la scambierebbero con un cavallo, o con un altro allenatore, per nulla al mondo.
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