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Alessandro Retico per “la Repubblica”
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La morte arriva alla terza tappa sdraiata nella polvere senza senso. Nessun segno, strana fine, solo un corpo svuotato dalla vita su una strada sbagliata. La Dakar non perde il vizio di uccidere, anzi quasi non può, la tragedia è la sua durevole solennità, forse la sua stessa sopravvivenza. Più di sessanta le vittime da quando il rally è nato (‘79), tra queste 24 piloti. Il polacco di Cracovia Michal Hernik è l’ultimo: il motociclista (su Ktm), 39 anni, è stato trovato morto al chilometro 206 tra San Juan e Chilecito, circa 1.200 km da Buenos Aires, in una zona chiamata Cuesta de la Miranda. Il cadavere era riverso nella polvere, a 300 metri dal percorso regolare.
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L’hanno rintracciato gli elicotteri del soccorso intorno alle quattro del pomeriggio, si era perso già da più di un’ora il segnale con la moto. Nessuna traccia di incidente, né lamiere divelte né motori in fiamme, la moto e il casco accanto al corpo e su questo nessuna ferita nessuna traccia apparente di dolore. Non si sa cosa sia successo e come, la magistratura ha aperto un’inchiesta ma per ora scrive soltanto un nome sopra la sua scomparsa: indeterminata e inspiegabile.
Ma la Dakar ha le sue ragioni, anzi le pretende. E’ pur sempre un rally, anche se snaturato del mito in cui nacque, dell’Africa selvaggia, dei deserti dove la parola avventura aveva ancora un significato. Trasmigrata in Sudamerica dal 2009 per paura di attentati, si corre tra Argentina, Cile e Bolivia.
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La sicurezza non è la sua ossessione naturale, sebbene esistano limiti di velocità e gli standard generali siano migliorati con l’evolvere della tecnologia. Ma non cambia lo spirito dentro, la quantità di rischio e pericolo che promette a chi pericolo e rischio cerca, quasi agogna. Il Tourist Trophy sull’Isola di Man sulle moto ogni inizio estate funziona anche per quello: tra viuzze, pali della luce, strade ruvide e bugiarde. A giugno scorso la 232ª vittima dal 1907 (Karl Harris, 34 anni). Correre e morire, qualcosa come un rito.
Hernik era alla sua prima Dakar. Aveva partecipato al rally del Marocco nel 2013 e a quello di Abu Dhabi l’anno scorso. Alla terza tappa si trovava all’84ª posizione della classifica generale con la sua “baby”. Così chiamava la sua moto. La sua piccola, la sua ragazza.
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La sua morte è la quinta da quando il rally è emigrato alla fine del mondo: prima era successo al francese Pascal Terry nel 2009, all’argentino Jorge Martínez Boero nel 2012, al francese Thomas Bourgin nel 2013 e al belga Eric Palante l’anno scorso. La storia di Hernik ha oscurato i vincitori di tappa di ieri, la quarta, lo spagnolo Joan Barreda nelle moto e il qatariota Nasser Al-Attiyah nelle auto.
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E’ sempre così, tra poche ore si correrà come sempre, da Copiaco ad Antofagasta in Cile, il lutto è un tatuaggio della Dakar. Lo è anche il denaro: l’edizione 2014 ha avuto un impatto economico di 150 milioni di dollari in Argentina, 62,3 in Bolivia e di 40 in Cile. Le 1200 ore di corsa trasmessa dalle tv in 190 paesi hanno reso 420 milioni di dollari. Lo show promette dramma, adelante.
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