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Gianluca Marziani per Dagospia
L’Italia industriale di una borghesia emiliana luminosa. L’Italia filantropica di famiglie consapevoli che rilasciano valori sul territorio geografico ma anche sulle geografie del pensiero etico. L’Italia che sa fare Cultura con strumenti sensibili, motivazioni pedagogiche e profili specifici, inclusivi, aperti ai codici liquidi del mondo civile.
Il vostro marziano atterra a Bologna per visitare un luogo unico come la Fondazione MAST, un’istituzione che dal 2013 è l’evoluzione kantiana del museo d’azienda, sorta di organismo bioculturale voluto da Isabella Seragnoli, presidente di Coesia, holding di aziende che producono macchine automatiche per il packaging e sistemi di controllo ad alta tecnologia.
Il pianeta Seragnoli è una di quelle imprese familiari per cui vale la parola “eccellenza”, un termine che qui definisce un modello civico non casuale, da considerare “modello Bologna” vista la schiera di figure regionali che lo implementano: Marino Golinelli (fondatore di Opificio Golinelli, altro gioiello di cui il marziano vi parlerà prossimamente), il ravennate Federico Marchetti (fondatore di YOOX, oggi a capo del gruppo YNAP S.p.A.), Marina Deserti, Giovanna Furlanetto, Alberto Masotti e, appunto, la Presidente della Fondazione MAST Isabella Seragnoli che del filantropismo a rilascio capillare ha fatto un maturo modello olistico.
Dai portici del centro si arriva nel periferico quartiere Reno. Scendo dal taxi, giro lo sguardo e capisco subito che al MAST convivono visione e strategia, civiltà e progetto, lavoro e umanesimo. Labics, innovativo duo di architetti romani, ha elaborato uno spazio possente con la leggerezza di un’ala in cemento, un posto di gravità sospesa che ricorda un’isola definitiva e silenziosa, vero laboratorio del pensiero per immaginare la misura umana della tecnologia, il profilo educativo del progresso digitale, quel fatidico valore morale che forma generazioni mentre modula le strategie culturali di un’industria ad altissimo fatturato.
La scultura rossa firmata Mark di Suvero è la firma netta nello spazio d’ingresso, il codice geometrico che condensa la filosofia aziendale, ovvero, rigore e solidità, equilibrio e potenza ma anche passione, sangue, personalità. Rappresenta il prologo iconico di una collezione (distribuita negli spazi interni) in cui la geometria si scalda nei colori accesi, nei materiali eterogenei, negli angoli morbidi. Anish Kapoor, Olafur Eliasson, Donald Judd, Julian Opie, Robert Indiana, loro ed altri per implementare il silenzio meditativo con isole di pura energia, allestite tra vuoti densi che si integrano alle sale didattiche (favolosa la prima parte che spiega, con processi interattivi, come funzionano i sistemi meccanici ad altissima precisione), alle aree di raccordo, alla zona del mangiare, alle aule dell’Academy, al Centro Wellness, al Nido Scuola, all’Auditorium, ai servizi e ad un corollario virtuoso di vetrate, strutture a palafitta, colori modulari, scale, tecnologia nascosta, luci variabili…
Varcata la soglia d’ingresso è subito chiaro il peso sostenibile dell’idea: uno spazio che racconti l’universo ampio del lavoro e dell’industria attraverso l’arte fotografica (il responsabile artistico è Urs Stahel), orientando lo spettatore tra mostre personali o tematiche che documentano fabbriche, lavori a mano, catene di montaggio, macchinari, sistemi, logistica e tutto l’apparato umano senza il quale l’industria sarebbe un termine vacuo. Uomini e donne con cui attraversiamo il Novecento europeo e statunitense, toccando guerre e tempi prosperi, città e periferie, artigianato e meccanizzazione, tra pionieri e capitani d’industria, manovalanza e settori specialistici, non dimenticando le ambiguità, le tragedie, l’incidenza sul paesaggio ma anche la creazione di nuovi costumi sociali, nuove professionalità e nuovi prodotti per un mondo migliore.
LE MOSTRE
W. Eugene Smith coi suoi scatti anni Cinquanta su Pittsburgh, la più importante città industriale del primo Novecento; Thomas Ruff con il suo perfezionismo chirurgico che cattura macchinari e dettagli meccanici; Jakob Tuggener, gigante della fotografia industriale, con le immagini di FABRIK che narrano i rapporti tra uomo e macchina dagli anni Trenta agli anni Cinquanta; Dayanita Singh e il suo sguardo profondo sugli aspetti umani nel cuore dell’industria pesante… fino alla recente avventura di Anthropocene, un tuffo aereo sulla Terra plasmata dagli umani, un progetto di epocale centralità che ha intrecciato gli sguardi di Edward Burtynsky, Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier.
BIENNALE FOTO/INDUSTRIA
E’ il fiore all’occhiello del MAST, la prima Biennale sul tema Industria che ha da poco raggiunto la quarta edizione, conclusasi il 24 novembre 2019 e, come da consuetudine, organizzata tra la sede d’origine e una serie di spazi bolognesi. La quarta tappa, diretta da Francesco Zanot (che ha proseguito il lavoro di François Hébel), ha offerto 11 mostre in altrettanti luoghi per riflettere sul tema del costruire in un sistema complesso ma fragile come il presente.
Sfogliavo il catalogo a fascicoli e notavo quanto offra la fotografia “tecnica” per la comprensione dettagliata del presente, per ampliare le nozioni attraverso le visioni, per varcare l’inaspettato e definire le ragioni del progresso. Tutto diventa più complesso nel vostro mondo ma i fotografi dai connotati specialistici aiutano ad orientarsi sulle strade del domani. La loro è arte utile, pratica, pedagogica.
UNIFORM
Il nuovo progetto espositivo coglie, negli scatti di 44 fotografi, tutta l’essenza curatoriale del MAST, la sua coerenza tematica ma anche la flessibilità con cui sa declinare l’ambito del Lavoro. In mostra oltre 600 scatti tra nomi internazionali e uno spin-off dedicato a Walead Beshty coi suoi ritratti ai professionisti del mondo artistico. Funziona bene l’intreccio tra due modi opposti di vedere le uniformi: da una parte le molteplici tipologie d’uniforme che raccontano contesti storici, umani e professionali, ricreando un’enciclopedia narrante che osserva usi e costumi lavorativi nel Novecento e oltre; dall’altra, con gli scatti di Beshty, un controcanto sull’uniforme invisibile del terziario culturale, su figure del mondo artistico che vivono outfit e approccio in maniera attitudinale, spesso con poco margine per la funzione pratica, con la coscienza di un valore addizionale dietro l’abito, il fatidico habitus che amplifica l’identità sociale del vestire.
Sapete una cosa, noi marziani siamo particolarmente recettivi quando scopriamo un progetto terrestre che unisce Lavoro e Cultura in maniera limpida, senza ambiguità semantica e falsa retorica, tutelando le figure professionali, il senso di comunità inclusiva, la cultura del sostegno e dell’allargamento familiare. Perché qui al MAST siamo noi spettatori le pedine aggiunte, accolte con educazione ma nel rispetto dei lavoratori di Coesia, che qui godono di un’entropia ad elevata civiltà morale.
Mensa, asilo nido e spazi comuni sono parte integrante del ciclo lavorativo, così da creare un’aria emotiva che non è solo atmosfera di bellezza ma contesto evoluto, per dare ai dipendenti un luogo letteralmente sano, dove anche i talk, le conferenze e le proiezioni (con un programma di ottimi ospiti che potete scoprire sul sito web) aumentano il bagaglio pedagogico di un’azienda da imitare con cura. E’ bellissimo, per una volta, entrare in un luogo espositivo e sentirsi ospiti in punta di piedi, attenti a non disturbare la quiete privata, come se qualcuno ci avesse aperto la sua casa per mostrarci frammenti di pura magia.
Esco da qui e sento che, parafrasando un famoso Vasco emiliano, “vado al massimo, vado a gonfie vele”. Ancor meglio, “Vado al Mast, vado a gonfie tele” (anche se qui vince la carta fotografica).
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