DAGOREPORT - ‘’RESTO FINCHÉ AVRÒ LA FIDUCIA DI GIORGIA. ORA DECIDE LEI”, SIBILA LA PITONESSA. ESSÌ,…
Giancarlo Dotto (Rabdoman) per Dagospia
Prima o poi qualcuno mi chiederà quali sono stati i momenti più emozionanti della mia presunta vita e io, senza esitare, tra gli altri, racconterò del giorno in cui, in un ristorante di New York, aiutai Muhammad Alì a infilarsi il cappotto perché le sue mani tremolanti non lo aiutavano.
Era un cappotto elegante, nero, che gli scendeva sotto il ginocchio. Infilare il cappotto a un mito tremante, non solo perché infreddolito, l’uomo che, sotto nomi diversi, aveva stecchito, tra i tanti, quel criminoso di Sonny Liston, due volte almeno quella belva di Joe Frazier e poi, tra tutte, la Montagna Incantata, George Foreman, mi sembrò come infilare una mano nell’imperscrutabile fessura del senso della vita. Rallentai il gesto perché durasse il più possibile, non finisse mai o così presto da non incartare come un dono tutto mio per sempre cos’era di così commovente, la delicatezza e la ferocia della vita combinate nello stesso quadro.
Non dimenticherò mai il suo sorriso appena accennato di gratitudine, dove c’era tutta la mestizia del mito che chiedeva scusa di mostrarsi così. Posso dire? Una grandiosa dignità. Quel sorriso di gratitudine, un sorriso velato, l’ho rivisto anni dopo in Carmelo Bene, quando gli strinsi la mano anche lei tremante in punto di morte. Anche quella, la mano di un gigante.
Due giorni prima, a Las Vegas, la Montagna Incantata, George Foreman, uomo generoso, mi aveva offerto un pezzo del suo triplo hamburger, il secondo consecutivo, fatto sparire nel suo quintale e venti di ciccia intelligente e sentimentale. Foreman era un boxeur straordinario, forse il più grande di tutti i tempi, ma era finito giù al tappeto come un sacco vuoto ai piedi di una divinità che, non potendo più volare come una farfalla e pungere come un’ape (il Muhammad pugile era morto a Manila, anni prima, nel terzo feroce match con Joe Frazier), aveva demolito il negro amato dai bianchi semplicemente infettando un’intera nazione con la forza della sua mente.
MOHAMMED ALI CONTRO SONNY LISTON
Quella notte folle, sul ring di Kinshasa, l’immenso Foreman, il Marciano nero, scaraventò tutta la sua furia sull’ologramma a braccia incrociate di Muhammad, schiacciato a testuggine sulle corde, fermo come preso dalla voluttà di farsi massacrare, in realtà a celare la sua vera identità di quella notte al nemico. Che, se l’avesse riconosciuta, sarebbe scappato con il primo jet. Picchiò come un ossesso, Foreman, prima furioso, poi incredulo, dunque arreso, fino a farsi fuori.
MOHAMMED ALI CONTRO SONNY LISTON
The rumble in the jungle. Credeva di picchiare Alì e invece picchiò se stesso, infliggendosi il più feroce dei kappao. Quella notte su quel ring un pugile sublime picchiò fino ad annientarsi qualcuno che già si era annientato di suo, moltiplicandosi nell’energia disumana dei centomila a bordo ring. Non lo avevano avvertito quell’ingenuotto di Foreman che si trattava di battersi con centomila.
MOHAMMED ALI CONTRO SONNY LISTON
E che Muhammad era un Dio. Da quella notte, Foreman si trasformò in un bulimico divoratore di hamburger. Tornò molti anni dopo campione del mondo, ma la boxe non era più boxe e i re non erano più re. L’ultimo, il più grande, non era più nemmeno capace d’infilarsi il cappotto da solo. Lui che ammazzava i rivali con la parola ancora prima che con i pugni, lui che parlava essendo parlato, morto, così dicono, per una crisi respiratoria. Lui che ha respirato immenso su tutti noi.
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