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Michele Pennetti per bari.corriere.it - Estratti
giorgio perinetti e la figlia emanuela
Un anno fa moriva Emanuela Perinetti. Figlia di uno dei dirigenti più stimati nell’ultimo mezzo secolo di calcio in Italia, soffriva di anoressia. Nonostante la giovane età (34 anni), proprio il mondo del calcio ne apprezzava già le qualità di intenditrice di marketing con un’elevata capacità di “influenza” su web e social.
Al padre Giorgio, una storia da direttore sportivo (o generale) di Roma e Napoli, Juventus (dove coordinò il settore giovanile)e Palermo, Siena, Bari e Venezia, Genoa, Brescia e infine Avellino, restituiva i segreti di un cosmo – quello del pallone - che andava man mano ammodernandosi a colpi di algoritmi, adeguandosi alle esigenze tecniche e commerciali del nuovo tempo digitale.
(...)
Ripensando a quei momenti terribili dello scorso anno, qual è il ricordo più forte e chiaro che ha di Emanuela?
«La degenza in ospedale alla fine della sua giovane esistenza, quell’iniziale ostracismo al ricovero, il progressivo abbandono fino all’evidenza, alla tenerezza che infondeva quel suo corpicino sempre più esile».
Riesce a darsi pace per quanto accaduto?
«Per un genitore è impossibile rassegnarsi ad una perdita talmente angosciante, dolorosa. Sei portato a credere che un figlio continui ad essere dentro di te, che respiri attraverso il tuo respiro».
Come lei, Emanuela viveva di calcio. Si occupava di marketing. Era una donna in carriera, brillante, già affermata. Si è chiesto perché sia finita così?
«Me lo continuo a chiedere ogni giorno, ogni minuto di quel che mi resta da vivere. Ma non trovo mai una spiegazione. Rimane incomprensibile come una ragazza con la sua energia e i suoi valori sia stata sopraffatta da quelle ombre interiori che le hanno creato un disagio tanto devastante quanto irreparabile».
Da quanto tempo Emanuela soffriva di anoressia?
«Probabilmente da più di un anno. Ma è tipico di questo disturbo negarne l’evidenza, raccontare bugie per continuare a nasconderlo. Abbiamo capito tutto troppo tardi».
Discutevate insieme della malattia che aveva? Da quando ha cominciato a temere per la salute di sua figlia e cos’ha fatto per provare a salvarla?
«Nell’attimo in cui ho smascherato le sue bugie e compreso in pieno il problema, le ho parlato con sincerità ma pure con decisione. È servito a poco. Non sono riuscito neppure con l’aiuto dei medici ad ottenere il suo consenso al ricovero, avvenuto poi soltanto dopo un malore e uno svenimento in casa».
Da Palermo a Roma e Milano, continua a ricevere premi che dovevano essere consegnati a Emanuela, oltre che a partecipare ad iniziative in nome di sua figlia. Che effetto fa? Quale sensazione prova?
«Emanuela era considerata una delle migliori influencer italiane nel marketing. I premi che le attribuiscono sono un riconoscimento alle sue doti. Però ricordarla serve soprattutto ad affrontare la battaglia ai disturbi alimentari, così diffusi tra i giovani».
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Nel suo ambiente, chi è stato più vicino a lei e ad Emanuela?
«La persona che si è mostrata più sensibile, cercando di aiutare Emanuela ma più in generale la mia famiglia anche dopo la scomparsa di mia moglie, è stata Elisabetta Conte. Sì, la moglie di Antonio, l’attuale allenatore del Napoli. Le sono e le sarò sempre, infinitamente, grato».
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Qual è stato il messaggio più bello che ha ricevuto da un anno a questa parte?
«La psicologa che l’aveva in cura nel finale di vita mi ha rivelato di aver parlato della storia di Emanuela ad una sua giovane paziente, mostrandole gli articoli di giornale nell’immediatezza della morte di mia figlia. La ragazza ha ascoltato, accettando il ricovero e le cure. Quel messaggio mi ha trasmesso sollievo, come se la morte di Emanuela stesse aiutando un’altra donna a rimanere in vita».
E da chi è rimasto deluso?
«Da me stesso. Dall’incapacità di captare i segnali criptici che Emanuela mi mandava, di prevenire, di intervenire, convincendola a evitare l’inevitabile».
Come si sopravvive alla perdita di una figlia con la quale, peraltro, condivideva la passione per il calcio?
«Non poteva usare linguaggio migliore, nel mio caso sopravvivenza è l’unico sostantivo pertinente. L’unico modo è poter essere utile ad altri attraverso il racconto di questa esperienza con iniziative che non solo ne conservino il ricordo, ma che lo trasformino in opportunità di guarigione per ragazze e ragazzi affetti da disturbi alimentari, purtroppo sempre più numerosi».
Quale consiglio si sente di dare ai genitori che hanno figli con gli stessi problemi?
«A loro dico che bisogna saper ascoltare con pazienza, non reprimendo nervosamente i primi sintomi ma dimostrando interesse, dolcezza. E poi agire, rivolgendosi subito con fiducia e senso di partecipazione alle associazioni che si occupano del contrasto all’anoressia».
Emanuela Perinettigiorgio perinetti foto di bacco
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