DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
Maurizio Cecchetti per Avvenire
Il punto è questo - e lo delinea con chiarezza Catherine Grenier nel saggio che apre il catalogo della mostra su Picasso e Giacometti in corso a Parigi nel museo intitolato al maestro spagnolo: Là dove Picasso nasconde le sue debolezze e i suoi dubbi, Giacometti ne fa invece l' essenza stessa della sua opera come anche della sua immagine pubblica. Perfetto. È un buon punto di partenza per guardare questa mostra che mette l' uno di fronte all' altro, l' uno vicino all' altro, due "mostri".
E quando Catherine Grenier nel suo saggio usa questo aggettivo, monstres, credo lo consideri in tutta la sua molteplice valenza, che va da straordinario a colossale. La radice latina rimanda a portento e a prodigio, ma se volessimo allargare il campo alla gergalità contemporanea si potrebbe svariare da incredibile (ormai tutto ciò che esce un po' dalla norma è diventato incredibile, quindi poco credibile) a bestiale, fenomenale, spettacoloso, superbe (come dicono spesso i francesi delle cose di elevata qualità), alle declinazioni più pop: "da infarto", "da paura".
E in effetti tutte queste valenze che si attribuiscono alla parola "mostro" calzerebbero per Picasso, forse meno per Giacometti, a cui interessava trovare il punto di crisi delle cose comuni rendendole fuori dal comune: un ritratto diventava giorno dopo giorno, settimane e mesi dopo mesi una specie di distillato egizio della rappresentazione umana, una effigie divina.
Ecco la sostanza del ritratto egizio: la sua monumentalità anche in ciò che appare nella scala più ridotta. La sculturina dello Scriba - diceva Martini -, alta venti centimetri, ha la stessa sacrale imponenza della scultura in granito nero di due metri. È lì che Giacometti ha scovato il senso estetico della sua scultura successiva al periodo surrealista. Ma già allora, nel 1932, una figura di ampia dimensione come Femme qui marche I , offre un distillato di bellezza neoegizia.
Picasso non è mai abbastanza monumentale, non possiede mai questa scala mistica, le seste divine che consentono di far grande anche nel piccolo. Giacometti sì. Colloca una sculturina, una specie di filo di pasta alto pochi centimetri, la cui forza ha tutta l' aria di essere quella del fagiolo magico della fiaba, su un basamento all' apparenza troppo grande per quel piccolo oggetto, e lo spazio che gravita su di esso diventa una sorta di punto critico del cosmo: il vertice rovesciato del cono di forze che dominano l' universo e la capocchia di quella specie di "fiammifero" coincidono, ma la sculturina sembra in gradi di reggere con la massima naturalezza tutto il peso della calotta cosmica che preme sulla sua testa.
Ancora Martini: La scultura consiste nei vuoti, in tutto quello che non c' è. Giacometti avrebbe sottoscritto. Lo stesso Giacometti che spiegava a Pierre Matisse cosa gli stava accadendo - si era negli anni Quaranta: Nell' attimo in cui rifacevo a memoria quello che avevo visto, atterrito scorgevo la scultura farsi sempre più piccola; erano somiglianti soltanto se erano piccole e tuttavia trovavo disgustosa questa loro piccolezza, e instancabilmente ricominciavo daccapo per ritrovarmi, qualche mese dopo, al medesimo punto.
Una figura grande per me era falsa e una piccola egualmente insopportabile, e poi diventavano così minuscole che con un ultimo colpo di temperino spesso sparivano per sempre nella polvere. In seguito spiegò che quelle sculturine diminuivano via via perché cercava di rendere la scultura alla stessa 'distanza reale' da cui aveva osservato il personaggio ma a forza di indietreggiare non restava niente. Così - potrebbe sembrare una boutade, ma era una risposta seria - quando un giornalista gli chiese come avrebbe fatto a trasportare le sue opere a Parigi per una mostra, Giacometti rispose: Me le metterò in tasca, e indicò poi indicò al suo interlocutore sei scatole di fiammiferi che contenevano il lavoro plastico di un intero anno.
Jean-Paul Sartre nel 1948 centrò il punto chiave: Ai suoi personaggi di gesso egli dà una distanza assoluta come il pittore ai personaggi della sua tela.
Dirò che da questa mostra ho tratto conferme a due convinzioni che ho da tempo: la grande scultura degli ultimi due secoli è nata da pittori. Il precursore forse fu Géricault, ma si può costruire una linea (peraltro molto francese) che compren- de Courbet, Renoir, Gauguin, Bonnard, Matisse, Max Ernst, Modigliani e Boccioni, e naturalmente Picasso e Giacometti.
Si obietterà che Giacometti è anzitutto uno scultore, ma è una svista: se si studia la progressione dei suoi ritratti grafici e pittorici, si intuisce che la scultura è il distillato, il miele prodotto dalle api che hanno allestito la loro arnia nello spazio che collega occhi e cervello, il foglio di carta o la tela.
E poi interviene la mano come sensore che manda al cervello le informazioni sulla materia necessaria a plasmare la forma a occhi chiusi (la scultura dei ciechi - a parte il noto aneddoto di Diderot - ha il suo precursore nell' anziano Degas che perdendo la vista non potè più dipingere e disegnare e, arrivato al punto di non ritorno, si dedicò totalmente alla scultura: la mano palpava il corpo della modella e trasferiva, come un pantografo, l' emozione nel corpo di cera e di creta).
Picasso è un grande scultore, ma la sua azione è tutta in positivo; assembla, costruisce, aggiunge (vedi le opere del periodo cubista - Mandoline et clarinette -, ma anche quelle più tarde, anni Cinquanta, nate dall' assemblaggio di oggetti trovati: La Chèvre, La Guenon et son petit).
Penso che Picasso sia monstre anche nell' ambito plastico, ma la sua scultura rimane totemica, simbolica e primitiva, mentre quella di Giacometti ha la disperata sacralità esistenziale di chi cerca se stesso in uno spazio infinito che sembra ogni giorno di più un deserto. Arte del disperso, che cercando la distanza giusta, si guarda intorno e scopre che tutto si perde, si allontana, scompare.
Poco prima di recarmi al Museo Picasso, sono stato al d' Orsay per la retrospettiva su Bazille, e in una sala a parte mi è capitato di vedere un quadro che mi ha fatto pensare a Giacometti: Paesaggio di neveche il pittore svizzero Cuno Amiet dipinse nel 1904. Il titolo è talvolta citato come Grande inverno. Si tratta di una tela enorme quasi tutta occupata dal bianco della neve, dove a stento si individua una piccola figura umana, forse uno sciatore, che ha tracciato un solco quasi impercettibile su quella distesa accecante. Deserto bianco: vasto, silenzioso, abbagliante, disperante. Amiet era amico di Giovanni Giacometti, il padre di Alberto.
Il dipinto, che impressiona anche per la sua leggerezza pittorica, si può immaginare che fosse noto a Giacometti e che egli l' abbia a lungo tenuto nella memoria. Certo, il vuoto che gravita sulla sua scultura come il masso che Sisifo porta sulla schiena, e la riduzione progressiva della sua scultura al filo di pasta, all' ombra della sera di etrusca memoria, anche quando s' ingigantisce nelle proporzioni come nell' Uomo che cammina, è identico a quella vastità silenziosa e infinita del paesaggio alpino di Amiet.
robert capa picasso con il figlio
Picasso ha un altro tipo di ossessione-disperazione: l' alterità a cui deve dare un volto è ancorata alle maschere del teatro antico, ai fantasmi del passato ancestrale, al mondo degli dèi che dominano il cielo del mediterraneo spagnolo e francese.
E non è dello stesso tipo il totemismo psichico che prende forma nel periodo surrealista di Giacometti. Picasso osserva tutto, divora tutto, inventa tutto (che significa poi, nell' antica retorica, trovare idee, argomenti, anche fittizi, per sostenere il proprio discorso, e Picasso non si fa remore nel prendere anche dagli artisti vicino a lui).
Giacometti però ha un linguaggio che resiste all' esproprio - conta anche la distanza generazionale fra i due: quando Parigi fece l' Hommage a Picasso nel 1966, Giacometti, pur più giovane, era già morto alcuni mesi prima; una cifra precisa, difficile da utilizzare in discorsi diversi dal suo e, infatti, in questo confronto con Picasso si assiste a un dialogo fra sordi (tra l' altro, la loro amicizia s' interruppe bruscamente), dove i prestiti reciproci sono sostanzialmente nulli, i confronti tematici assai poco probanti.
L' impressione, uscendo dalla mostra, è che la soggezione al mito monstre di entrambi abbia impedito ai curatori di questa esposizione di affondare troppo il coltello per decostruire il processo della loro ispirazione. Ne sarebbe emersa, credo, la distanza quasi inconciliabile fra due inizi e due approdi alla scultura del tutto differenti.
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