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Ivan Zazzaroni per corrieredellosport.it
gabriele gravina e roberto mancini
Parlando di Mancini, in una recente intervista Fabio Capello, il guru, pose l’attenzione su una qualità che gli riconosco dai tempi in cui allenava la Lazio: con perfetta sintesi capelliana, spiegò che «Roberto sa di calciatori come pochissimi altri allenatori».
Mancini è effettivamente uno straordinario, oltre che ostinato, valorizzatore del talento: ha la capacità non comune di individuare il potenziale non solo tecnico di un giocatore e di metterlo a disposizione di un’idea e della squadra. Rare le topiche. È anche un “normalizzatore”: rende il calcio più semplice di quello che è e l’hanno fatto diventare, perfino nella comunicazione.
Alla Nazionale ha fatto un gran bene, anche al di là del sorprendente e meritatissimo titolo europeo e dello storico record mondiale di risultati utili. Gente come Zaniolo, Berardi, Pessina, Locatelli, Di Lorenzo, Raspadori, Tonali, Sensi, Kean e il fresco di convocazione Pobega gli deve la dimensione internazionale; Balotelli, anche l’illusione. «C’è qualcosa di molto più prezioso, raffi nato e raro del talento» spiegò lo scrittore e filosofo americano Elbert Hubbard, «è il talento di riconoscere le persone di talento».
Stasera la Nazionale, la nostra Italia, può centrare quello che prima dell’indimenticabile vittoria di Wembley era considerato l’obiettivo della gestione: la qualificazione al Mondiale del Qatar. A questo punto Roberto non può deludere. Lo deve a chi non sopporta le soste per le nazionali poiché interrompono costantemente il racconto del campionato, e siamo in tanti.
Lo deve anche al presidente federale Gravina che l’ha messo nella condizione di lavorare in totale libertà, consentendogli anche di formare lo staff più numeroso e “omogeneo” di sempre; è altrettanto vero che Mancio l’ha già abbondantemente ripagato rafforzandone la posizione politica, per giunta al momento giusto.
Ma lo deve in primo luogo - l’invito non è perentorio, solo accorato - agli italiani che alle vittorie azzurre hanno fatto ormai la bocca. Alla gente che, amando il gioco del pallone, già ne conosceva le virtù consolatorie non tanto grandi e salutari, tuttavia, come si sono rivelate in questo tragico scorcio di vita.
Ci ha divertito, ha resuscitato gli umori e i colori di un tempo che sembrava perduto, vi sembra poco? Oggi è come ritrovare, nel Mancio, un vecchio personaggio di Nino Manfredi, Tití, invocato dai suoi fedelissimi: “Robe’, nun ce lascia’“. Andiamo, Italia! In tutti i sensi.
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