DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
Paolo Ricci Bitti per il Messaggero
Monty: così, a lungo, nel dopoguerra, soprattutto nei villaggi maori nell' isola del nord della Nuova Zelanda, vennero chiamati molti bambini con un nome del tutto inedito nella Terra della lunga nuvola bianca.
Un omaggio ai caduti nelle battaglie di Montecassino in cui i neozelandesi pagarono un pesantissimo tributo di sangue fra il gennaio e il maggio del 1944: nel cimitero del Commonwealth a Cassino 456 delle 4.360 lapidi sono per quei giovani le cui fotografie in bianco e nero campeggiano in tutti i municipi della Nuova Zelanda, anche quelli dei paesi più piccoli di una nazione che non raggiunge - adesso - i 5 milioni di abitanti .
Si vedono, in quelle foto, reparti di giovani poco più che adolescenti che marciano nelle fangose main street prima di imbarcarsi per andare a combattere in Europa nel 1915 e nel 1940.
Andare a morire, spesso da eroi, nella lontanissima altra parte del mondo per la nostra libertà. Terribili le perdite del 28° Battaglione Maori dal fronte nordafricano alla linea Gotica: 340 morti e 1.200 feriti su 3.600 effettivi.
Due dei caduti a Montecassino erano All Blacks, come quelli che domani alle 15 all' Olimpico affronteranno gli azzurri, e tutti i reparti neozelandesi avevano nei tascapane qualche pallone da rugby per sfidarsi durante le tregue dopo aver seppellito i loro compagni. La prima Haka, danza propiziatoria pre-match, in Italia venne guidata durante una tregua in quella terribile primavera dal capitano Matarehua Wikiriwhi e l' 8 dicembre di quel 1944 lo stadio Morgagni di Forlì ospitò nella melma di una stagione antartica la finale della coppa Freyberg, dal nome del comandante del contingente neozelandese: il 22° Battaglione sconfisse 4-0 la Compagnia Munizioni. In campo pakea (i bianchi) e i maori, da sempre d' accordo in fatto di mete e placcaggi.
Missionari del rugby in un paese che però tarderà ad assimilare quella catechesi da parte di chi già apparteneva sin dalla fine del 1800 al culto mitologico della palla ovale fondato sull' invincibilità.
Gli imbattibili All Blacks è un dogma alimentato di vittoria in vittoria: dalla Coppa del Mondo 2011 ad oggi - per restare nella Storia contemporanea - la Nuova Zelanda - ha perso 4 partite pareggiandone 3 sulle 102 giocate, alzando nel frattempo due coppe del mondo. Non esiste una squadra altrettanto vittoriosa nella vicende di tutto lo sport con una tendenza che dall' avvento del professionismo - in Ovalia solo dal 1995 - ha intensificato per un motivo assai semplice.
Gli All Blacks non possono permettersi di perdere (salvo rarissime occasioni come sabato scorso a Dublino, e mai hanno perso in 14 match con l' Italia) se vogliono sopravvivere. Una nazione isolata e così poco popolata si è via via totalmente identificata con la nazionale di rugby al punto che il suo simbolo, la felce argentata, ne avrebbe potuto persino costituire la bandiera.
Gli All Blacks sono il biglietto da visita della Nuova Zelanda, non ci sono alternative.
Con il professionismo e l' ingresso dei magnati delle tv come Murdoch, il business legato ai semidei in nero è così lievitato in maniera abnorme, in modo inversamente proporzionale alle dimensioni della nazione e alla diffusione stessa del rugby, praticato ad alto livello in una manciata di Paesi nemmeno troppo popolati: la squadra e la Haka sono diventati brand internazionali richiestissimi alla pari di Ferrari, Manchester United e Real Madrid. Tra sponsor a vita tipo Adidas e diritti televisivi il marchio vale 200 milioni di dollari Usa, raddoppiato in sette anni.
Ma che ne sarebbe del mito se i neozelandesi cominciassero a perdere di tanto in tanto come avviene ai comuni rugbysti? Che ne sarebbe dell' aura alimentabile solo con l' imbattibilità? Loro, gli All Blacks, conoscono le risposte, e continuano a vincere.
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