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Malcom Pagani per "Il Fatto Quotidiano"
Il curioso caso di Benjamin Button ha un nuovo interprete. Fedele alla lezione di Brad Pitt, Chris Horner sa che "non è mai troppo tardi per diventare quel che decidi di essere" e invecchiando, sfidando l'anagrafe, trasportando la pedalata nel dubbio e una giornata di sole nella sporca pioggia del sospetto, è ringiovanito a 42 anni.
Raziocinio, dubbio e sorpresa nel suo trionfo alla Vuelta si danno la staffetta. E in vista del traguardo, da attore consumato nel circo delle due ruote, Horner ha accelerato ancora. I postini dell'agenzia antidoping spagnola, desiderosi di sottoporlo a un controllo sull'ematocrito hanno suonato più di due volte. Ma all'hotel La princesa di Alcorcon, un impersonale palazzone a 4 stelle non distante da Madrid, il signor Horner non c'era.
Aveva preso il volo, Chris, lasciando i burocrati a terra e i portavoce della sua squadra, la Radioshack in trincea a controbattere indignati: "Chiederemo i danni" e a mostrare la prova regina della buona fede. Una mail spedita (e ricevuta) dall'Usada, l'agenzia antidoping americana, in cui Horner comunicava spostamenti e reperibilità : "Finisco la Vuelta oggi 15 settembre a Madrid, e tornerò domani a casa a Bend, Oregon. Il mio indirizzo di domani mattina sarà : Hotel Ciudad de Mostoles".
Horner aspettava nuove nella stanza 314, ma tra le 6 e le 7 (l'orario a cui si era reso disponibile) nell'albergo in cui dormiva con la moglie, non si è presentato nessun gendarme. Così Horner è ripartito verso casa e adesso, in attesa che sulla sua prestazione straordinaria si faccia luce, il ciclismo si chiede se applaudire l'inopinato exploit di una comparsa o per fonetica, riscrivere l'ennesimo capitolo di una triste farsa.
I due partiti sulle barricate, agitando fantasmi o brandendo diagrammi, ipotesi e affermazioni apodittiche non sembrano inclini alle conciliazioni. Per alcuni, Chris Horner fa rima con Lance Armstrong e il suo trionfo nella Vuelta (39 colline non dolci da superare, 13 tappe massacranti), il suo volto sorridente in salita di fronte al ghigno sofferente di Nibali e Valverde è solo la sfacciata dimostrazione di uno stregonesco abisso a cui lo sport di Bartali e Coppi, tramontate le borracce ad acqua, si è consapevolmente votato in nome del così fan tutti.
Per altri, gli alfieri del garantismo e del "fino a prova contraria chiunque è innocente", non c'è calcolo virtuale che tenga e (postulato su cui lo stesso Horner, in un'intervista, si era speso in prima persona) tocca a chi presidia dimostrare se un ciclista ha alterato o meno il quadro. Nel guado, in attesa di una prevedibile battaglia legale, le considerazioni di sempre.
Il doping corre più velocemente di qualunque antidoping e il sangue si ossigena più rapidamente dei paradossi. Così tra chi propone la liberalizzazione di una pratica ormai troppo diffusa per tentare di frenarne l'evoluzionismo e chi si spinge a chiedere la chiusura palingenetica del ciclismo tutto, afoni rimangono i medici onesti. Il silenzioso grumo che da anni, inascoltato, predica sui limiti della natura.
Sull'autotutela di un corpo umano che da una data età , per preservare il motore, fa diminuire pulsazioni e prestazioni. Sull'impossibilità dei miracoli. Sulle prospettive alterate che nella Medjugorje della disciplina più ferita dalla sperimentazione, a cadenza regolare, danno in pasto alla stampa storielle edificanti di riscatto e resurrezione. Horner, a differenza di qualche semplificazione, non era sconosciuto né perdente. Ha avuto embolie polmonari e infortuni che in linea del tutto teorica avrebbero potuto preservarne il logoramento e qualcosa (un Tour della California a 40 anni) ha vinto.
Guru del settore lo dipingono come "molto professionale" (ma bisognerebbe intendersi sulla definizione) e mai prima d'ora, nelle classifiche stilate dai custodi deputati alla purezza, ad esempio, del Tour de France, ha superato la soglia zero di sospetto (si arriva fino a 9) stilata alla fine di ogni tappa dallo staff dell'inimitabile caienna francese su pedali. Il problema è la prospettiva. L'inganno del momento.
Spesso quel che vestiva di bianco si è macchiato finendo per sporcarsi ed è difficile non pensare alle ombre proiettate sugli emuli di Horner se anche una leggenda come Jeannie Longo, ragazza del '58 e portabandiera del no-limits alle Olimpiadi pechinesi del 2008, ha fatto i conti con l'arresto del marito, tratto in ceppi nel 2012 per aver acquistato Epo via internet a più riprese.
Forse bisognerebbe fermare il fotogramma. E raccontare finalmente il patto a cui l'eterno compromesso tra spettacolo e successo ti costringe. Lance Armstrong lo ha fatto troppo tardi. A Venezia, nel documentario girato del premio Oscar Alex Gibney, Lance sembrava ancora in fuga dalle sue bugie. Chiedeva scusa, ma le parole si perdevano nel vento. Mentire è come vincere. Dà assuefazione. Chris Horner non si è ancora abituato. C'è tempo, anche quando sembra che non ce ne sia.
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