RIUSCIRÀ SALVINI A RITROVARE LA FORTUNA POLITICA MISTERIOSAMENTE SCOMPARSA? PER NON PERDERE LA…
Estratto dell’articolo di Emanuela Audisio per La Repubblica
Resta un uomo capace di cambiare schema. Anche ora che festeggia gli 80. I decenni per lui sono svolte. A 60 anni smise di fare l’allenatore di basket per diventare piccolo libraio a Roma, a 70 si diede al team-building (discorsi motivazionali) e ora a 80 ci tiene a dire che non fa il nonno. «Mi dedico finalmente alla mie passioni: gallerie d’arte, musica, letture, soprattutto saggi». Valerio Bianchini, primo allenatore di basket ad aver vinto tre scudetti con tre squadre diverse (Cantù, Roma, Pesaro), tanti titoli e molte esperienze, è sempre un bel tuffo nella vita.
Difficile scegliere tra basket e libri?
«Ricordo a San Francisco la City Lights di Ferlinghetti con lui alla cassa e Pasolini sugli scaffali, il rimpianto quando a New York tra Broadway e l’80esima strada non trovai più la Shakespeare and Company e la sorpresa di scoprire a Parigi in un quartiere decentrato la Griffe Noire, dove ogni testo aveva una scheda scritta a mano e in vetrina c’era un water dove buttare i libri che non erano piaciuti. Gusti e disgusti.
A rovinarmi sono stati due film: Improvvisamente l’estate scorsa e Psyco, mi affascinava la psicanalisi, ma a Milano la facoltà di Psicologia non c’era e Medicina non faceva per me, così mi iscrissi a Filosofia, fulminato da Lo Straniero di Camus.
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L’avversario più ostico?
«Sempre Dan Peterson perché era quello con più glamour e valore. Rappresentava Milano e la sua task force. Ci siamo confrontati tante volte, la sua difesa laser con Mike D’Antoni metteva paura. Batterlo è stato un lavoro complesso, prima con una squadra di provincia, poi con quella della capitale che però nel basket non lo era. Era una Roma uscita dalla Dolce Vita, che si toglieva dalle spalle la polvere della città ministeriale: con Liedholm e Falcao vinceva lo scudetto nel calcio, piccole aziende digitali nascevano, c’era un risveglio».
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E non va pazzo per l’Nba.
«Non sono per un basket dove l’unica cosa che conta è far canestro e prendere rimbalzi. Ma sono tra quelli a cui l’America ha insegnato, mi piace la loro tradizione dei college, dove i professori fanno gli allenatori e dove c’è spirito universitario, ricerca, sperimentazione. Il basket, un gioco aperto che si svolge al coperto, ha sempre favorito evoluzione e rinnovamento, non come il calcio sempre uguale a sé stesso. Invece ora si è fermato.
Ricordo quando Bill Bradley a metà anni 60 arrivò a Milano, prima di allenarsi faceva stretching, parola a noi sconosciuta, i vecchi lo prendevano in giro: questo sta sempre sdraiato, non vuole faticare, altri dicevano che doveva solo sgranchirsi dopo il viaggio aereo. Gli ho visto fare prima della partita una cosa che nessuno fa più: iniziare a tirare da sotto canestro, poi facendo un passo indietro, poi un altro, fino a dieci passi. Metteva a punto il suo meccanismo, ma oggi c’è il tiro da tre, con quello si risolve tutto. Posso essere contro? Mi annoia. Era un gioco da 5 contro 5, con il pick and roll è diventato un confronto a due».
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Non le piace Pozzecco ct?
«Petrucci lo ha scelto perché sa comunicare. La sua aura è l’emotività. Pozzecco è irrefrenabile, compartecipa e condivide. Si agita molto, piace alla gente. Bene, bello, può funzionare qualche volta, ma un ct ha una figura diversa. Deve dare luce a tutti gli allenatori, insegnare, fare scuola, siamo andati tutti a bottega da Paratore, Primo e Gamba. Il basket si deve arricchire, non immiserire, ma come si fa in un campionato dove ogni anno le squadre cambiano 10 giocatori su 12? E quando l’orchestra ogni volta è nuova cosa fa il direttore?».
Suona la stessa musica.
«Esatto, sceglie il tema che tutti conoscono, non ha tempo per altre note. Figurarsi per la complessità o per l’avanguardia. Negli anni 80 i giocatori uscivano da una scuola dove tra assemblee e riunioni si discuteva molto, uno come Enrico Gilardi era abituato a elaborare un pensiero, c’erano fermenti straordinari, Gamba seppe cogliere la crema di quell’educazione. Ora quella spinta non c’è più, ci si sono messi anche gli agenti che hanno trasformato geneticamente i giocatori, non c’è più limite ai trasferimenti. Domina l’individualismo, il signor Io, la collettività non è più un valore. A scuola se un figlio non è promosso il genitore ricorre al Tar: io dico che dallo sport dovrebbe venire un’inversione di tendenza, l’esempio che senza studio e allenamento non meriti di andare da nessuna parte».
cino marchese valerio bianchini
Ci sarà qualcuno che le va a genio?
«Sergio Scariolo ha dato alla Virtus un gioco armonico, ha fatto molti miglioramenti in difesa e gli è riuscita la sintesi tra velocità e fisicità. È bravo a usare la zona mista, usa tutti gli strumenti tattici. Poi se l’altro tira meglio da tre, anche Scariolo perde. Seguo anche il lavoro di Ettore Messina e il suo rigore in difesa, ma è un altro che si è dovuto arrendere al tiro da tre punti. Non sarà un caso se anche un grande coach Nba come Popovich lo vorrebbe cancellare. Pure lui si dice annoiato».
L’accuseranno di essere retrò.
«Mi fa male un gioco che insieme non riesce a costruire niente per i trasferimenti assurdi, perché non c’è tempo e nemmeno la voglia di darselo, perché anche gli allenatori sono legati agli agenti e hanno perso la loro centralità. Non c’è più metodo né ricerca dell’eccellenza, tutti vogliono vincere. Io vengo ricordato per i tre scudetti ma io ho giocato sei finali e tre le ho perse perché il canestro degli altri è andato dentro».
Chi non vorrebbe in squadra?
«Rodriguez e Teodosic, enormi narcisisti. Ok sei bravo, ti guardo, ti applaudo, magari però se pensi alla squadra è meglio. I playmaker sono spariti, devono per forza segnare, per questo vorrei sempre Daniel Hackett che si preoccupa di come fare suonare bene l’orchestra. Nel ’98 ho vinto una Coppa Italia con la Fortitudo perché sono riuscito a equilibrare il talento di due immensi egoisti, Myers e Wilkins, che non ridavano mai indietro la palla, con il lavoro di smistamento del play. E ci tengo a dire grazie ai giocatori Nba che hanno sostenuto il Black Lives Matter. È stato un gesto di straordinaria bellezza e giustizia».
valerio bianchini dan peterson
Rivaluta l’America?
«Lo showbusiness non m’interessa. Negli anni 70 andai a fare un giro in Usa e ne approfittai per conoscere “il generale” Bobby Knight che allenava Indiana a Bloomington. Con noi fu gentilissimo, ci portò negli spogliatoi che erano perfetti quando in Italia i nostri non avevano l’acqua calda, ci fece vedere la palestra. Gli scappò un foglio dalla cartella. Lo raccolsi e sbirciai. Era il suo discorso alla squadra. Diceva: “Tu che sei un giocatore ricordati che tra i ventimila spettatori ci sono gli occhi di un ragazzino che ti guarda, tu per lui sarai l’uomo giusto, cerca di essere un buon esempio”. Per questo il basket era un gioco meraviglioso: non solo una palla da buttare nel cesto, ma un seme da gettare nel cuore della gente».
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