"CHIESI A DELL'UTRI SE FOSSE PREOCCUPATO PER IL PROCESSO?' MI RISPOSE: 'HO UN CERTO TIMORE E NON……
Marco Mensurati per “la Repubblica”
In attesa di conoscere l'esito dell'inevitabile contenzioso legale tra Mercedes e Federazione, e di capire, dunque, chi sarà il vincitore giuridico del Mondiale, l'incredibile gara di Abu Dhabi, ultimo atto di una stagione incredibile anch' essa, qualche sentenza l'ha già emessa. La prima, incontrovertibile, è che la F1 - the pinnacle of motorsport come pomposamente la definiscono gli "inventori" inglesi - ha finito di cambiare la sua pelle e da sport si è ormai trasformata definitivamente in show.
E che show. Una sorta di wrestling su quattro ruote. Una messa in scena in cui l'arbitro, nel caso di ieri il malcapitato australiano Michael Masi, è poco più di un elemento di colore, un signore probabilmente munito di papillon e baffetti, vocato alla drammaturgia più che al regolamento, le cui scelte sono sempre di più determinate dagli eventi. Quando non addirittura dalle necessità di sceneggiatura.
Nel vecchio mondo, quello in cui lo spettacolo veniva dopo il merito sportivo, succedeva - almeno in teoria - esattamente il contrario. Alla retorica del campo, gli americani hanno invece lentamente sostituito la logica di Netflix. Un algoritmo acchiappa like che nel giro di pochi anni ha modificato geneticamente - non per forza in peggio, sia chiaro - la natura dell'evento.
Che oggi, di conseguenza, ha bisogno di nuovi protagonisti, anch' essi geneticamente modificati: lottatori con muscoli gonfissimi, doti da cannibali e una propensione naturale a prendersi la scena, a qualunque costo. Un po' acrobati un po' attori. Proprio come nel wrestling. Ed è questa la seconda sentenza emessa dalla gara. Perché qualunque sarà il verdetto finale dei giudici, già ieri è stato chiaro a tutti che sotto la bandiera a scacchi del circuito di Yas Marina è nata una nuova stella del motorsport (motorshow?), quella di Max Verstappen, l'olandese volante che il padre - mediocre pilota degli anni 90 - strappò al liceo e alla vita ordinaria di adolescente quando aveva sedici anni per gettarlo nel rodeo delle monoposto, in barba, ancora una volta, ai regolamenti, compreso quello di base che prevede che per guidare - anche in F1 - sia indispensabile la patente.
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