DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
Francesco Giorgianni per Chi – www.chimagazine.it
«Questa seconda Coppa Davis è stata un’emozione fortissima. La mia famiglia: mia moglie Francesca e miei due figli, Emma ed Edoardo, sono venuti a Malaga e insieme abbiamo vissuto un’esperienza che ricorderemo per sempre. I bambini hanno giocato con i coriandoli che sono stati lanciati sulla coppa e si sono divertiti tantissimo».
È il momento magico di Filippo Volandri, il capitano di Coppa Davis, che non riesce ancora a capacitarsi della felicità di essere entrato nella storia per aver conquistato due “insalatiere” consecutive. Sa anche che il suo è un successo costruito un passo per volta, fin da quando lui era un giocatore di livello internazionale e Sinner andava ancora alle elementari. Le loro strade si sarebbero incrociate anni dopo, per dar vita alla più forte squadra di tennis al mondo.
Iniziamo col ricordare quel pomeriggio di sole a Roma del 2007, al Foro Italico, quando ha battuto un certo Roger Federer. Avrebbe immaginato che un giorno avrebbe avuto il ruolo di capitano di Coppa Davis?
filippo volandri sinner italtennis coppa davis
«Ricordo bene quel giorno, ma allora non potevo immaginare come sarebbe andata. Quando smisi di giocare nel 2016, Angelo Binaghi (presidente della Federazione italiana tennis, ndr.) mi chiese che cosa volevo fare da grande. Io risposi che non mi sarebbe dispiaciuto, quando Corrado Barazzutti avesse lasciato l’incarico, di fare il capitano della squadra di Davis.
Lui mi rispose che era prematuro, ma mi propose di seguire il settore tecnico maschile, che doveva essere ristrutturato. Si trattava di un incarico più manageriale che tecnico, ma alla fine accettai. Quel settore fu un po’ il nostro vivaio. Ho visto crescere Matteo Berrettini e Lorenzo Sonego, che erano dei ragazzini. Poi sono arrivati Jannik Sinner, Flavio Cobolli, Matteo Arnaldi».
A proposito, su Internet circola un video con Berrettini e Cobolli bambini insieme in campo. Fanno tenerezza…
«Questo perché Vincenzo Santopadre, che è l’allenatore storico di Matteo Berrettini, è molto amico di Stefano Cobolli, il papà di Flavio (che allena il figlio, ndr). Matteo è stato un punto di riferimento per Flavio nel corso degli anni. Insomma quello è stato l’inizio, poi quando la Federazione ha deciso di cambiare il timone della Coppa Davis, mi hanno offerto l’incarico di capitano e non ci ho pensato due volte».
Un ruolo di prestigio.
«Per un ex giocatore come me, che ha fatto parte della Nazionale, sicuramente è il massimo. Ma quando ho preso l’impegno si trattava anche di cambiare qualcosa, bisognava dare alla squadra una struttura moderna. Così, tutta l’organizzazione che era stata data al settore tecnico, che stava funzionando molto bene, è stata riportata, in maniera un po’ diversa, in Davis».
Come funziona?
«Oltre al capitano di Davis ci sono i collaboratori, gli psicologi, un preparatore mentale, un preparatore atletico».
È stato difficile gestire questa macchina complessa e anche rapportarsi a giocatori di alto livello che hanno tecniche e mentalità differenti?
«Dare una struttura non è stato troppo complicato perché questa organizzazione l’abbiamo creata noi, ce la siamo costruita. Poi avere a che fare con il numero uno del mondo è tutta un’altra storia. Io adotto una comunicazione diversa a seconda di ciascun giocatore della squadra».
Per esempio?
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«Jannik ha bisogno di poche indicazioni, ma super precise; Matteo necessita di una comunicazione un po’ più ampia, Musetti ha bisogno invece di tante, tante parole. Avere iniziato con loro questo lavoro anni fa, mi ha facilitato il compito. Dato che li ho visti giocare dall’età di 17 anni per me non è così strano ritrovarmi in panchina seduto accanto a dei campioni come il numero 1 del mondo, il numero 17, il 35 e così via».
Invece che rapporto ha con gli allenatori di questi grandi giocatori?
«Rispetto a una volta, nel settore tecnico è cambiato il fatto che oggi includiamo gli allenatori dei giocatori. In passato la Federazione andava in giro per l’Italia in cerca di talenti che, poi, sistemava dentro a un college. Quando sono arrivato io, abbiamo fatto sì che questi ragazzi non venissero più a vivere a Tirrenia, ma siamo andati noi a casa loro e dai loro allenatori.
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Stessa cosa in Davis, sono il primo che oltre ai ragazzi, invita anche i loro coach, ed è importante che ci siano. Simone Vagnozzi (l’allenatore di Jannik Sinner, ndr.) a Malaga non è potuto essere presente, ma mi ha detto: “Filippo, Jannik viene da solo, ma sono tranquillo perché ci sei tu”. Questo è solo un esempio per spiegare che, con gli allenatori, c’è un rapporto di fiducia e ci teniamo in contatto. Io stesso assisto alle partite dei giocatori durante gli appuntamenti più importanti della stagione come: Miami, Montecarlo, Us Open, le Olimpiadi e prendo appunti».
In finale la scelta di sacrificare una coppia di doppio collaudata e vincente come Bollelli-Vavassori è stata difficile?
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«Da una un lato, scelte così sono decisioni che costano, soprattutto a me. Dall’altro, so che i miei giocatori le accettano».
Come anche le ha accettate Lorenzo Musetti che, in finale, ha passato il testimone a Berrettini.
«Sì, l’unica pecca è stata la prestazione di Lorenzo. E pensare che, in allenamento, aveva giocato in modo strepitoso. È stato un peccato per lui, per noi, per tutti. Ma tutto serve per migliorare ancora».
Questo il Volandri capitano di Davis, ma com’è invece Filippo in famiglia?
«Sono un papà molto presente, legatissimo ai miei due bambini. Quando parto per lavoro mi mancano tantissimo, e non vedo loro di riabbracciarli. Hanno anche iniziato a giocare a tennis, ma l’importante per me è che pratichino sport, poi, per il futuro, si vedrà».
Qual è il segreto del legame con sua moglie Francesca?
«Non ci annoiamo mai, viviamo entrambi per i nostri figli e Francesca è una mamma eccezionale».
Si dice sia anche una grande appassionata di fitness.
«Altroché, allena diverse sue amiche. Non si ferma mai, è come un vulcano».
(…)
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