Mirella Serri per "la Stampa"
donald sassoon
Moderni, bisogna essere assolutamente moderni: al capezzale del grande malato d'Europa, l'impero ottomano, il sultano Mahmud II lanciò a metà degli anni Trenta dell'Ottocento il piano di "riorganizzazione". Ordinò divise militari ultimo grido copiandole da quelle europee e vestiti occidentali per tutti i funzionari. Impose che fosse appeso ovunque un suo ritratto alla maniera dei monarchi d'Europa. E, sempre sulla scia degli Stati più avanzati, costruì strade e ponti, promosse la sanità e l'istruzione.
Anche il suo successore realizzò questo tipo di investimenti, che comunque si rivelarono assai esigui rispetto agli appetiti delle strutture militari che succhiavano circa il 60 per cento della spesa pubblica, il 30 per cento della quale era destinata a ripagare l'immenso debito pubblico.
DONALD SASSOON - IL TRIONFO ANSIOSO
Il piano di questi sultani naufragò miseramente, determinando le disastrose vicende dell'impero e la sua dissoluzione con la Prima guerra mondiale. Facendo un salto di alcuni anni, anche nell'Italia di fine Ottocento, con un'economia in crescita in tanti settori del triangolo industriale Milano-Torino-Genova (tessile, siderurgico, della gomma, chimico, automobilistico, elettrico), ci si illuse di poter operare un capovolgimento delle sorti italiane e di modernizzare l'intera penisola.
Ma fu un fallimento. Nonostante il suo notevole incremento, lo sviluppo non riuscì a eliminare il divario tra nord e sud, poiché dal settentrione e dall'estero non giunsero investimenti per il Mezzogiorno. Napoli, per esempio, che aveva oltre 500mila abitanti, continuò a essere in mano agli stranieri, con i francesi che gestivano la rete di distribuzione del gas, gli svizzeri quella elettrica, gli inglesi le forniture idriche e i belgi il sistema tranviario.
covid economy
Dall'impero ottomano all'Italia il passo è breve se è lo studioso Donald Sassoon a spiegarci, con la sua erudizione straordinaria e con dovizia di dati, che in entrambi i casi non vi fu uno Stato dinamico e pronto con le dovute misure economiche a potenziare una crescita asfittica. L'ultima ricerca del grande storico britannico, Il trionfo ansioso. Storia globale del capitalismo 1860-1914 (Garzanti), scava nelle radici del capitalismo, ne descrive l'impatto nella formazione degli Stati moderni e analizza in che modo la creazione di comunità nazionali, del welfare state e di una regolamentazione del mercato abbiano contribuito a rafforzare il sistema che ha sconfitto gli altri regimi economici.
covid e capitalismo
Ma rispetto al quale continuamente ci si chiede se e come sopravviverà: risalendo dal diciannovesimo secolo, l'autore di Sintomi morbosi finisce così per porre domande fondamentali sul nostro presente. Lo studioso di Gramsci e di Marx s' interroga su quali furono le condizioni che determinarono la nascita del moderno capitalismo in Gran Bretagna, il suo consolidamento in tutta Europa, negli Stati Uniti e in altre parti del mondo, come la Cina e il Giappone.
Nel 1849, osserva Sassoon, «pur non essendo ricca come gli Stati Uniti, la Gran Bretagna era il paese più ricco d'Europa e di gran lunga la prima nazione commerciale al mondo». Gli elementi che contribuirono a questa espansione furono molteplici. In particolare, vi fu la produzione di carbone che dai tre milioni di tonnellate del secolo precedente, nell'Ottocento superò i 15 milioni.
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Poi ci fu la diffusione su tutto il territorio di innovazioni geniali ideate nel Settecento, dal motore a vapore al procedimento di conversione del carbone in coke. Però il vero segreto della società britannica, permeata di iniziativa imprenditoriale, osserva lo storico, fu il sostegno dello Stato (la cui presenza si avvertì anche in altre nazioni europee, in Belgio e in Russia, per esempio, dove supportò la realizzazione delle ferrovie; in Francia e in Italia, dove mobilitò prestiti e offrì garanzie).
In Gran Bretagna il governo regolamentò le partecipazioni ai capitali sociali, rafforzò il servizio postale statale e nel 1870 sviluppò il telegrafo. Nel 1875, con l'acquisizione del 40 per cento delle azioni del Canale di Suez, «il governo divenne il più grande azionista singolo nella più grande azienda di servizio pubblico internazionale al mondo». Alla vigilia della Prima guerra mondiale, lo Stato salvò dal fallimento la Anglo-Persian Oil Company (divenuta BP nel 1954).
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Le istituzioni statali sono naturalmente promotrici di sviluppo economico? Assolutamente no, poiché, secondo Sassoon, un governo per essere determinante deve impegnarsi, come avvenne in Gran Bretagna, in modo forte e deciso. Solo uno sforzo di tal fatta favorì in tutta Europa la riuscita del sistema capitalistico, che peraltro non si è mai verificata in modo indolore: ha creato sconfitti e vincitori in un processo di ininterrotta innovazione. Questa instabilità cronica è la ragione stessa del successo del capitalismo, in perenne conflitto con lo Stato.
Quest' ultimo, anche quando è federale e non centralizzato, è monolitico, ha regole stabilite, ed è ancorato all'interno di un territorio. Il capitalismo invece ha tendenze globali, è anarchico, non mosso da una volontà unica: «è come un albergo sempre pieno di gente», scriveva Schumpeter, «ma di gente sempre diversa». Nonostante la sua espansione e il trionfo della società dei consumi, la disaffezione nei riguardi di questo sistema è attualmente sempre più diffusa, osserva Sassoon, come testimonia il fatto che da tempo gli elettori, in tutta Europa, si sono allontanati dalle urne.
Noi occidentali siamo oggi più ricchi di quanto non lo siamo mai stati ma, malgrado ciò, sale lo scontento e aumentano le diseguaglianze. «Sono un storico», è solito ripetere lo studioso, «non so predire il futuro». Adesso sta prendendo piede la rivoluzione green, i cui obiettivi ambientali appaiono in contrasto con i consumi e la produttività e che sembra foriera ancora una volta di instabilità e di ansia. È probabile, per Sassoon, che il capitalismo sopravviva e che abbia slancio anche nel nuovo ambiente facendo comunque molte vittime.