Marco Luceri per www.corriere.it
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Nella sua autobiografia, Una passione libera (Marsilio), scritta insieme alla moglie Caterina Varzi, Tinto Brass sintetizza così il senso del proprio essere artista: «L’eros è liberazione, rifiuto dell’ipocrisia per mestiere e del perbenismo di destre e sinistre, affrancamento dall’arroganza del Potere, ribellione alla paura che spegne i sogni e con i sogni si porta via la speranza».
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Anarchico, libertario, passionale, eternamente discusso e censurato, il maestro italiano dell’eros è il protagonista della mostra Brass mon amour (dal 21 maggio al 12 giugno) allestita a Villa Bottini, a Lucca, in occasione del Photolux Festival, che quest’anno ha come tema l’amore.
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Nata da un’idea di Fabio Macaluso, e a cura di Caterina Varzi, Enrico Stefanelli, Chiara Ruberti, Francesco Colombelli e Rica Cerbarano, l’esposizione si snoda attraverso 120 tra fotografie e documenti inediti (come sceneggiature, bozzetti di scenografie e costumi, polaroid dei provini, manifesti, lettere), tutti dall’archivio privato di Brass. Un percorso che porterà a contatto con gli aspetti più curiosi dei suoi lavori, ma anche a scoprire il rapporto con gli attori e la vita privata.
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Alberto Moravia ha seguito per anni il suo cinema con grande interesse, definendola «un ideologo del sesso», e cioè un artista che cerca di eliminare il senso di colpa, per giungere a un sesso innocente. È d’accordo con questa definizione?
«Se lo diceva Moravia! Il fatto che mi abbia seguito con attenzione presuppone una certa affinità. Durante le nostre lunghe conversazioni avevo la sensazione forte che l’erotismo fosse anche per lui una chiave per interpretare la realtà».
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Venezia e Parigi sono due luoghi che negli anni della sua formazione, sia come uomo che come artista, hanno contato tantissimo. Perché proprio queste due città?
«Sono nato a Milano, ma un legame profondo mi lega a Venezia. Mi sono nutrito della sua cultura, storia, lingua e tradizione. Perfino con i cambiamenti irrimediabili subiti nel corso del tempo rimane per me la “sexe femelle d’Europe”, come la chiamò Apollinaire. Il significato e il significante del mio cinema derivano in buona parte dal mio rapporto con questa città intrigante. Acqua, luce, vedute e prospettive rovesciate sono elementi che la caratterizzano e si ripetono ossessivamente nei miei film.
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A un certo punto, dopo la laurea in giurisprudenza, decisi di andare a Parigi. Alla fine degli anni Cinquanta la realtà parigina era molto vivace. Alla Cinémathèque Française, dove mi occupavo degli archivi, ho conosciuto il grande documentarista Ioris Ivens e Roberto Rossellini. Da loro ho imparato tutto quello che so del montaggio e del cinema».
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Molti tendono a dividere la sua carriera in due fasi: la prima più legata al cinema d’impegno e di contrapposizione anarchica e radicale al Potere, mentre la seconda è quella dei film erotici. Mi pare una forzatura: già nel suo primo film, «In chi lavora è perduto» (1963), l’indagine sul tema della sessualità è presente, e poi cosa c’è di più «eversivo» della libertà e della felicità sessuale?
«L’ho detto tante volte. Nei miei film non c’è una frattura tra un primo periodo serio e militante e un secondo periodo frivolo e superficiale. È sempre stato il linguaggio a interessarmi. Non considero affatto minori i miei film erotici. L’erotismo veicola una critica sociale e politica, esprimendo su un piano diverso la mia inestinguibile ricerca di libertà».
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Alla fine degli anni ‘60 lei stava lavorando a un adattamento di «Arancia meccanica», che prevedeva Mick Jagger nella parte di Alex. Ci può raccontare qualcosa su questo progetto mai realizzato?
«I produttori della Paramount mi invitarono negli Usa per propormi l’adattamento cinematografico del romanzo di Anthony Burgess. Avevo accettato la proposta della casa americana con l’intenzione di assegnare a Mick Jagger il ruolo di Alex Delarge. Ma a condizione di girare prima L’urlo, a cui già stavo lavorando.
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Quando sono tornato in Italia il progetto è stato proposto a Kubrick. Non ho rimpianti, però. L’urlo è un film a cui tengo particolarmente. Gigi Proietti, oltre a essere il protagonista, ha anche collaborato alla scrittura dei dialoghi insieme a Giancarlo Fusco. E lavorare con Proietti e Tina Aumont, l’interprete femminile, è stata un’esperienza davvero entusiasmante».
Ne «Il disco volante» (1964) lei ha lavorato con Monica Vitti. In quel film ha un ruolo insolitamente comico per lei, che in quegli anni era la musa di Antonioni. Dunque fu lei, e non Monicelli a scoprire questa sua inclinazione ancora inespressa?
«Mi accorsi subito del sorprendente brio di Monica e le assegnai la parte brillante di Dolores, la moglie del sindaco. L’obiettivo era quello di realizzare un film in grado di mettere insieme la satira sociale con le fantasie libidinose, sintetizzate dall’iconica battuta di Monica “Dime porca che mi piase de più”, in risposta alle rime poetiche dell’amante, interpretato da Alberto Sordi. La ragazza con la pistola fu girato da Monicelli nel 1968, a distanza di quattro anni dal mio film».
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Con «La chiave» nel 1983 dà una nuova svolta alla sua carriera e sceglie Stefania Sandrelli. Perché proprio lei?
«Stefania è una grande attrice e lo era anche prima di recitare con me. Io ho semplicemente tirato fuori ed esibito la sua carica sensuale. Era perfetta nel ruolo della protagonista. Nel provino si mostrò senza pudore e fortemente determinata a fare il film.
E poi ha un altro grande merito. Non mi ha mai rinnegato, difendendo La chiave con fierezza, orgogliosa di aver dimostrato alle sue colleghe di saper recitare anche con il culo».
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Lei che ha mostrato e raccontato la sessualità delle italiane e degli italiani per decenni, come la vede oggi? Ci sono ancora dei tabù? Pensa che la realtà virtuale libererà definitivamente il sesso o, al contrario, lo mortificherà?
«Benché ci si racconti il contrario, siamo ancora bigotti. La morale rispetto al sesso è mutata pochissimo. E per alcuni aspetti stiamo tornando indietro. Basti pensare che ancora oggi se si vuole evitare di essere oggetto di scherno o violenza bisogna nascondere il proprio orientamento sessuale.
Nell’immaginazione non c’è censura e la realtà virtuale è solo un’estensione dell’esperienza del sesso. Può essere coinvolgente e interessante, purché non determini un totale distacco dal sesso e dagli incontri reali. Nessuna tecnologia è in grado di offrire le emozioni di una vera relazione».
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