Renato Franco per www.corriere.it/sette
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Questa intervista a Stefano Accorsi e Fabio Volo è il servizio di copertina del numero di «7» in edicola venerdì 11 febbraio con il Corriere della Sera. La anticipiamo per i lettori di Corriere.it, unitamente all’analisi di Letizia Mencarni — professore ordinario di Demografia all’Università Bocconi di Milano — sui cinquantenni italiani, l’ultima generazione con un lavoro sicuro. Buona lettura
Da una parte il ragazzo che ha fatto ripetere a generazioni che «du gust is megl che uan», l’attore che ha stregato Muccino e Özpetek, l’interprete di emozioni umane in cui riconoscersi, il cittadino del mondo che è stato compagno di Laetitia Casta. Dall’altra il ragazzo che faceva il panettiere con il padre e poi si è specializzato nel non avere specializzazioni: volto televisivo, attore di cinema, scrittore (11 romanzi, oltre 8 milioni di copie in totale, l’ultimo Una vita nuova in cima alla classifica). Stefano Accorsi e Fabio Volo, due cinquantenni special, di successo.
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Infiliamo subito il coltello nella carne tremula dell’amor proprio: come ci si sente nei panni di un uomo di mezza età?
Accorsi: «Non mi ci sento. Quando Dante scriveva la Divina Commedia e parlava del mezzo del cammin di nostra vita intendeva i 35 anni. Oggi le cose sono cambiate, certo l’età media non arriva a 100 ma non riesco a definirmi un uomo di mezza età. Se quantifico la sensazione della mia età nella voglia di fare, di progettare, nei programmi in corso e futuri, sento che ho ancora bisogno di un bel pezzo di vita davanti a me».
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Volo: «Tengo sempre a precisare che ne ho 49, ma capisco che per la copertina devo averne 50... In realtà la crisi di mezza età ce l’ho da quando ne ho 42. Ho anticipato, io vivo già nella terza età. Quando è stato introdotto il coprifuoco ai miei amici ho detto: state vivendo come io faccio già da anni. Sveglia alle 6; cena alle 7, anche un quarto alle 7; a letto alle 10. Io non voglio sentire parlare di feste, cocktail, gala; quando devo fare la promozione dei miei libri o dei miei film mi sento male: si va al ristorante alle 11 di sera, si cena a mezzanotte e io poi la pago tutta la settimana. L’età non mi pesa perché credo di avere fatto le cose giuste nelle età giuste. Io non sono il 50enne che si chiede chissà come è stare con una di 25, chissà come è drogarsi, chissà come è viaggiare... Io ho pienamente vissuto il periodo della sperimentazione, il periodo dei viaggi con i biglietti aperti, che partivi e non sapevi quando tornavi, non sapevi che moneta avevano, dormivi dove capitava, alle stazioni, negli aeroporti».
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50 o 49 e non sentirli, ma come personaggi pubblici dovete fare spesso i conti con la vostra immagine...
Accorsi: «Rivedere le sequenze del passato, festeggiare i 20, i 30 anni di un film ti mette sempre di fronte al tempo che passa e ti rendi conto che non basta fare una qualunque espressione o un qualunque sorriso per venire bene in foto. In realtà se mi guardo indietro il tempo è volato, ho avuto davvero rari momenti di inattività, ho sempre avuto la testa, il pensiero e la vita occupati. I figli fanno il resto».
«Quando hai una vita densa e piena ti rendi meno conto del tempo che scorre, vola in fretta, te ne accorgi a lampi. È vero che nel nostro mestiere fai spesso i conti con l’età, ma nel frattempo accumuli esperienza. Il nostro è un lavoro in cui puoi continuare a crescere, ti assicura longevità professionale: perdi giovinezza, ma guadagni capacità».
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Volo: «Per la verità mi sembra di essere più bello adesso di quando facevo Le Iene con il pizzetto. Più maschio, più uomo. Sono migliorato...».
Che padre avete avuto? E cosa vi ha insegnato?
Accorsi: «Ho un padre con un grande senso dell’ironia, è un tratto che mi ha sempre colpito: uno sguardo ironico sulle cose, humor molto sottile. È un aspetto che ho ritrovato tantissimo nella vita: la capacità di sdrammatizzare con una battuta, di scherzare, non solo mette a proprio agio gli altri, ma anche te. Lo sguardo ironico è un’angolazione dalla quale vedi in modo diverso le situazioni, ti aiuta a decodificare la realtà in modo originale e leggero. È un aspetto che mi ha accompagnato e continua ad accompagnarmi; alla fine anche per me è diventato un codice del quale mi sono impossessato grazie a mio padre».
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Volo: «Un padre sgobbone, casa e lavoro, con un principio inderogabile: non giudicare. Me lo diceva sempre: non sai mai cosa c’è nella vita di una persona, quindi lascia stare. Devo tutto a mio padre: sia perché era poco presente e ho sempre desiderato la sua attenzione e quindi mi impegnavo il doppio; sia per la forma mentis sul lavoro. Penso che le cose che ho realizzato, i miei sogni, sono arrivati non tanto per il talento, ma per l’atteggiamento e l’attitudine al lavoro. In questo mi sento superiore a tante persone, macino tanto lavoro con diligenza e disciplina».
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E la mamma?
Accorsi: «Ha sempre avuto un approccio molto pratico, uno spirito fattivo, non voglio dire imprenditoriale, ma di iniziativa: se c’è una cosa da fare, facciamola. Di questo approccio pratico mi rendo conto oggi da padre: faccio cose che mi sembrano ovvie perché mi sono state insegnate, sono dentro di me perché sono scontate».
Volo: «Solare, estroversa. Una che parla anche con i sassi, sale sull’autobus e chiacchiera con chi ha di fianco, aperta al mondo; il contrario di mio padre. Da lui ho preso la disciplina e il godersi la solitudine; da lei il saper attaccare bottone con tutti».
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E voi che padri siete?
Accorsi: «Non sono quel padre autoritario d’antan che forse non esiste più, ma non cerco l’approvazione dei figli, li sgrido e li riprendo quando devo. Il problema con il quale devo convivere è che faccio un lavoro che mi porta spesso fuori casa. Gestire, o co-gestire a distanza, è sempre abbastanza complicato. E mi toglie una parte importante della quotidianità con loro. Ho quattro figli da due donne diverse ( Laetitia Casta e Bianca Vitali; ndr), la logistica non è semplice. La separazione è un momento molto difficile, doloroso, complesso da attraversare, sia nella gestione della propria emotività sia per la gestione dell’emotività dei figli. Il rapporto che prima era condiviso me lo sono ritrovato tutto mio. E mi ha aperto nuove possibilità. Poi certo un po’ di senso di colpa rimane, ma alla fine i miei figli avranno avuto l’esempio di due genitori che in un momento in cui le cose erano insostenibili hanno preferito non accettare un’unione di facciata; sapranno che se proprio le cose non vanno c’è sempre un’uscita, una scelta».
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Volo: «Sono un padre diverso dal mio. Sto molto con i miei figli (hanno 6 e 8 anni), gioco tanto con loro, cucino con loro, mi godo il divano con loro, apprezzo il non avere gente in casa; vado a recupero di quello che ho subito da mio padre e dedico loro molto tempo. Mio padre però è stato più bravo, più padre, mi ha formato, non faceva sconti, invece i miei amici sono più viziati... Ecco li ho chiamati amici, che lapsus , Freud ci andrebbe a nozze. Il problema è che io ogni tanto vengo sedotto dal tentativo di piacere ai miei figli, e quindi gli do quella cosa che non gli dovrei dare per sentirmi dire che sono bravo».
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Mastroianni diceva che un attore fa di tutto per diventare celebre e poi si deve mettere gli occhiali scuri per non farsi riconoscere. Quanto il successo è o è stato un’ossessione?
Accorsi: «Oggi più che in passato viviamo in un mondo in cui c’è l’ambizione al successo. I reality, i talent, i social: la possibilità la vedi a portata di mano. Oggi c’è grande consapevolezza della propria immagine pubblica rispetto a prima, i social hanno allenato tantissimo le generazioni ad avere una percezione più chiara dell’immagine che danno di sé agli altri. Io lo ammetto con onestà: per me l’idea del successo era abbastanza imprescindibile dal fare questo mestiere.
Gli attori con i quali mi identificavo o che ammiravo da piccolo erano bravissimi ma anche famosi, quel film che andavano a vedere tante persone, insieme, era per me significativo perché univa il pubblico in un rituale comune - che è la forza del cinema, del teatro. Quella componente identitaria, la ritualità, la condivisione si traducono nel successo, quindi l’ambizione al successo per me era un elemento abbastanza imprescindibile dall’ambizione di fare l’attore. Per successo non intendo i soldi (che poi sono una conseguenza), ma il fatto di desiderare che i film che facevo potessero veramente parlare alle persone. Ho sempre sentito naturale che se io raccontavo una storia, dall’altra parte ci doveva essere qualcuno ad ascoltarla, possibilmente una sala piena».
Fabio Volo
Volo: «Il successo non è mai stato un’ossessione, mi devo fare un complimento in questo senso. Ancora prima di cominciare questo lavoro avevo capito che la spinta è sempre stata avere un’idea da realizzare: avere un progetto e farlo diventare realtà. Io ho fatto un anno a Radio Capital con Cecchetto che a quei tempi era come Maria De Filippi oggi; c’erano Jovanotti, Fiorello, quando sono arrivato lì mi sentivo nell’Olimpo. Poi dopo un anno Cecchetto è andato via e io sono andato a fare il lavapiatti a Londra. Mentre ero lì mi sentivo Cenerentola, pensavo di aver perso il treno, mi chiedevo cosa avrei fatto e alla fine ho capito che l’espressione della mia creatività era quello che mi dava la felicità: avere un’idea e realizzarla.
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Ho sempre inseguito questo appagamento, poi è arrivato anche il successo. Credo che i miei libri piacciano per l’onestà di fondo, io non mi metto mai sul piedistallo, non mi faccio tentare dall’idea di descrivermi piu figo di quello che sono. E poi lascio tanto spazio al lettore, non sono ossessivo nella descrizione dei personaggi, mi piace dare solo alcuni elementi così chi legge lo può identificare in un amico, in un vicino, in un conoscente. Cerco di raccontare persone che tutti possono conoscere, così il meccanismo di identificazione diventa più facile. A volte gli intellettuali scrivono per loro; io invece lascio come un quadro, chi lo guarda decide cos’è. Mi sposto dalla scena, come faceva De Sica con la macchina da presa».
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Qual è l’utopia di chi fa il vostro mestiere, l’ambizione più collettiva che personale?
Accorsi: «Come spettatore alcuni film sono stati incontri della vita, sono stati esperienze che mi porto dentro come vita vissuta, sono compagni di viaggio. Questa è la mia utopia: riuscire a dare alle persone questa sensazione, cercare di regalare dei personaggi che senti vivi, portarsi dentro un pezzo di un’altra vita, che non è la tua, ma ti fa capire e interrogare sulla tua e sulla vita di un altro. È questa la grande potenza di cinema e teatro: sono contesti empatici, dove se il film funziona hai l’impressione di aver vissuto qualcosa di altro da te».
Volo: «Mi piace divulgare più che intrattenere e in questo la radio è perfetta: nelle mie trasmissioni ho sempre cercato di mettere dentro parole e pensieri di altri - scrittori, pensatori, filosofi, gente molto più profonda di me - per far sentire meno la solitudine a chi ascolta. Il problema vero da ragazzino era non avere un amico simile a me che mi dicesse: guarda che anche io provo le stesse sensazioni. Questo conforto l’ho trovato nei libri, in quei testi che dici: questo mi conosce meglio di mio fratello. Questo tipo di approccio lo applico anche nei miei libri: non scrivo mai dall’alto ma dal livello di chi legge».
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Qual è la critica che vi ha ferito di più? Quanto pesa il pubblico giudizio?
Accorsi: «In fondo non ci si abitua mai. Le critiche un po’ ti toccano sempre, anche quando il giudizio è approssimativo e superficiale».
Volo: «Grazie per il tentativo di addolcire il concetto. Ok, parliamo di quelli che mi massacrano. Ricordo i fax di insulti in radio, le prime volte ci rimani malissimo ma con il tempo ti fai le spalle grosse. Io poi ho avuto la fortuna di iniziare con Cecchetto e lui ti metteva sotto apposta: ti chiamava in ufficio e ti faceva dei cazziatoni memorabili. Anni dopo gli ho chiesto perché provasse gusto a farlo.
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E mi ha risposto che lo faceva per allenarmi: se ti ritrovi a San Siro e ti fischiano in migliaia non puoi metterti a piangere; lui ti temprava, ti metteva alla prova per vedere se resistevi anche alla pressione negativa. Ma senza quegli hater - non solo gli intellettuali ma anche la pancia dei lettori - penso che non avrei avuto tutta questa attenzione. Quindi quelle critiche per quanto dolorose o fastidiose sono state poi funzionali a mettermi al centro dell’interesse. Parte del mio successo lo devo anche a questo. Diciamo che ho messo l’odio in fattura».
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