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    MENTRE IL CINEMA ITALIANO PIANGE, SOLLIMA GIRA IN AMERICA IL SEQUEL DI 'SICARIO' CON 50 MILIONI $: SUPER-INTERVISTA AL REGISTA DI 'ROMANZO CRIMINALE' E 'GOMORRA' - 'A 9 ANNI HO PERSO MIA MADRE ED ERO GIÀ CINICO E DISILLUSO. MIO PADRE, REGISTA DI 'SANDOKAN', E' STATO UNA BRAVA MAMMA. MA NEGLI ANNI DEL COLLEGIO IL RAPPORTO SI RAFFREDDÒ' - 'TRA RESTARE PER TUTTA LA VITA REGISTA DI MATRIMONI O VIAGGIARE PER IL MONDO GUIDANDO UN CAST DI STELLE, PASSA UNA DIFFERENZA IMPERCETTIBILE'


     
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    Malcom Pagani per ''Il Messaggero''

     

    Gli anni, da due giorni, sono 51. I milioni di dollari che Hollywood gli ha affidato per Soldado, il sequel di Sicario con Josh Brolin e Benicio Del Toro, 50. Se credesse alla cabala e non professasse l'esclusiva religione della sottrazione, Stefano Sollima giocherebbe con i numeri e non con il cinema: «Ma sarebbe un peccato, perché ho passione, farei questo mestiere anche gratis e un filmettino con il telefono finirei per girarlo anche se naufragassi in un'isola deserta».

     

    stefano sollima stefano sollima

    Volto, biografia e pensieri di questo regista dal talento inversamente proporzionale alla notorietà, in Italia sono quasi sconosciuti: «Ed è bellissimo perché ho pudore, timidezza di fondo e non ambisco a farmi indicare a vista nei baretti di Roma. Il mio modello è Terrence Malick. Uno che nessuno sa che faccia abbia e all'autorappresentazione di sé e alle parole compiaciute, ha sempre anteposto le idee, la sostanza delle cose e il lavoro».

     

    Appena maggiorenne, Sollima ne aveva trovato uno da cameriere in Piazza Navona. «Passò per un caffè il mio amico Flavio: 'devo riprendere per una tv la parata del due giugno, mi serve un fonico, vuoi alzare due lire?' Non avevo niente da perdere e mi feci convincere. Da allora non mi sono più fermato».

    SUBURRA - STEFANO SOLLIMA SUBURRA - STEFANO SOLLIMA

     

    Dopo i cortometraggi, la camera a spalla trascinata tra Libia ed Algeria, gli spot e una prima fiction su vizi e retropalco dei calciatori, in meno di un decennio, con Romanzo Criminale e Gomorra, Sollima ha rivoluzionato la serialità, esportato i suoi racconti in più di 100 Paesi e conquistato l'America: «Non ho conquistato niente, però sono rimasto stupito».

     

    Stupito da che cosa?

    «Dall'aver perso nella transizione tra i due mondi molto meno di quanto non pensassi».

    STEFANO SOLLIMA SUL SET DI GOMORRA LA SERIE STEFANO SOLLIMA SUL SET DI GOMORRA LA SERIE

     

    Pensava di doversi snaturare?

    «Avevo messo in conto l'ipotesi e considerato il rischio. Sono partito dall'Italia con la consapevolezza che sarebbe potuto accadere».

     

    Però è partito lo stesso.

    «Ma certo. Il progetto, con l'ambizione e il budget di un film americano, ma con un taglio e un contenuto molto europei, mi incuriosiva. Il processo è ancora in corso e tutto può accadere, ma per adesso ho avuto una libertà operativa e creativa totale, dalla scelta del cast a quella della troupe. Ho cambiato quasi tutti, direttore della fotografia, costumista, scenografo».

     

    Come direttore della fotografia ha scelto Dariusz Wolski già con Ridley Scott in The Martian e Alien Covenant.

    «Ho parlato con tanti direttori della fotografia, a parità di curriculum ho scelto per simpatia».

     

    sollima sul set di sandokan 22 sollima sul set di sandokan 22

    Dice sul serio?

    «C'è una strategia. Lavori 16 ore al giorno a una macchina complessa, sottoposto a pressioni mostruose e non puoi farlo se intorno a te hai nevrotici, isterici e primedonne. Volevo creare un gruppo di lavoro in cui pur essendo tutti alla prima esperienza in comune, ci fossero persone caratterialmente compatibili e capaci di affrontare l'emergenza con il sorriso e non con il mugugno. Quando tensione e concentrazione sono alte, hai bisogno di gente che controbilanci e con l'umanità ti aiuti a superare i momenti di crisi. Affronti un viaggio, è come stare in barca a vela: devi sceglierti molto bene la squadra con cui navighi».

     

    Suo padre Sergio, regista di western, de Il Corsaro nero e di Sandokan, la portava sul set.

    sergio sollima ori sergio sollima ori

    «Non erano set qualunque, c'erano le palme, la giungla, il mare, le noci di cocco, gli animali, i maestri d'armi, le pistole, i pirati e gli attori che in Italia vedevi in copertina e magari in India ascoltavi durante le pause parlare di mutuo o di figli».

     

    Per l'ultima puntata di Sandokan, nel 76, Kabir Bedi bloccò milioni di italiani.

    «Kabir per gli altri era una star, ma per me restava soltanto un ragazzo. Crescere in una famiglia in cui si respira cinema, ti aiuta ad acquisire una distanza».

     

    Com'era il set?

    «A volte, il più delle volte, noiosissimo. Le battute recitate all'infinito, le ripetizioni continue, le pause sterminate. Non vedevo l'ora di andare via. Se non sei parte del processo, il set è un luogo irrilevante».

     

    E come scaturisce la magia?

    «La mia da un'illuminazione. A 13 anni vidi un western e tutti quei frammenti di lavorazione apparentemente slegati tra loro che avevo introiettato inconsapevolmente per anni, mi illuminarono sul meccanismo. Mi pareva di aver capito come si faceva un film, ero pronto per seguire le orme di mio padre».

     

    Suo padre l'ha cresciuta.

    STEFANO SOLLIMA STEFANO SOLLIMA

    «Mia madre è morta quando ero bambino e Sergio (Sollima lo chiama proprio con il suo nome nda) ha tenuto me, mia sorella e il lavoro in piedi, tutti insieme. Fu un trauma. Lui viaggiava moltissimo. Per un istante ipotizzò di mollare, ma pur essendo un borghese, ricco non era. Così noi figli diventammo parte organica della troupe».

     

    Come è stato diventare adulto senza sua madre?

    «Mi ha creato alcuni scompensi, ma mi ha aiutato a non dare per scontato niente e a saper decidere in autonomia perché essere soli riduce le opzioni. Alla fine siamo sempre tutti davanti a un bivio e l'ultima parola è nostra. C'è qualcosa di ineluttabile, di giusto e di ancestrale in questo».

     

    Definiamo gli scompensi?

    «Ho perso presto l'illusione e la voglia di credere che il mondo fosse un posto bello, sicuro e interessante. A 9 anni ero già cinico e disilluso. Una cosa del genere può farti diventare più duro di quel che dovresti e io ho recuperato la mia leggerezza più tardi. Era una parte di me, silente e latente, pensavo di averla persa e invece l'ho ritrovata».

     

    Suo padre è stato un buon padre?

    romanzo criminale sollima romanzo criminale sollima

    «È stata una buona mamma e con lui ho sempre avuto un rapporto adulto. Tra i 13 e i vent'anni sono stato in Collegio e all'epoca quell'esperienza di formazione rapida, quell'immersione forzata in una vita di camerate, lezioni e letti da rifare, contribuì a rendere la nostra relazione fredda. Quando ho smesso di essere un teenager cazzone abbiamo recuperato un dialogo. In verità gli ho voluto molto bene».

     

    Il successo di Sergio Leone fece ombra a suo padre?

    «Sicuramente, ma Leone era un genio e a differenza di papà - se si esclude la parentesi di C'era una volta in America - non aveva mai quasi mai cambiato genere. Ma mio padre, proprio come me, non era competitivo. Faceva film di intrattenimento, non aveva complessi, era un uomo in equilibrio con se stesso ancor prima che con il proprio lavoro».

     

    Sembra il suo autoritratto.

    «Da lui ho imparato due cose fondamentali. La prima è che anche in un film di intrattenimento è giusto che brilli una visione di fondo morale o se mi passa il termine, politica».

    daniela maiorana marco d amore stefano sollima daniela maiorana marco d amore stefano sollima

     

    E la seconda?

    «Che tra restare per tutta la vita regista di matrimoni o viaggiare per il mondo guidando un cast di stelle, passa una differenza impercettibile spesso orientata dai dettagli. Siamo privilegiati che hanno la fortuna di potere restare bambini e che giocano con dei mezzi impressionanti. Fai volare gli elicotteri e alzare la polvere. A rivedere nel monitor il primo ciak di Soldado mi sono emozionato. Quel casino, quel circo, quello spettacolo l'avevamo creato proprio noi».

     

    Lei si emoziona ancora?

    «Come un ragazzino. Mi metto sempre dalla parte dello spettatore. E non sono uno spettatore educato. Il primo grezzissimo premontato del film l'ho visto con i Pop-Corn in mano e i piedi sulla poltrona davanti alla mia».

     

    Cosa mi dice di Soldado?

    «Che è un film molto potente e assolutamente inusuale per un'opera che può contare su un budget medio alto anche per gli standard americani».

     

    il film sicario il film sicario

    Perché inusuale?

    «Perché Soldado è molto più vicino alle atmosfere del cinema duro anni 70 di quanto la recente produzione hollywodiana non si sia permessa di osare. A volte mi sono sorpreso nel vedere cosa stessimo girando. Da un'industria così attenta ai gusti medi del pubblico, non era ovvio aspettarselo».

     

    Un certo cinema americano soffre di omologazione?

    «La libertà creativa degli anni 80, quella che mi faceva chiudere al Novocine di Trastevere l'intero pomeriggio si era un po' persa per strada».

     

    emily blunt in sicario emily blunt in sicario

    La rivalutazione del cinema di genere è definitiva?

    «Forse da noi, perché in altri luoghi il cinema di genere non è mai tramontato. Ne avevano decretato la morte in Italia, ma accadeva solo perché si giravano prodotti orrendi. Il film di genere non è L'ispettore Callaghan che in qualsiasi categoria si trovi a transitare resta comunque un brutto lavoro, ma un' opera come Vivere o morire a Los Angeles. Un racconto che fotografa la società in un preciso momento storico e lo fa con nitidezza».

     

    In che categoria è lei?

    «Io sono un regista di genere e trovo che il genere sia una forma di racconto nobilissima. Una delle narrazioni più attuali che esista, la serie televisiva, è genere quasi puro per forma e sostanza. Oggi per convincere le persone ad andare in sala devi offrire di più del semplice intrattenimento, devi dargli la possibilità di una riflessione intelligente che resti dentro. Una volta, nel creare cortocircuiti che deviavano il corso banale del racconto e ti inchiodavano a osservare fino alla fine il film, eravamo maestri».

     

    Come è iniziata l'avventura?

    benicio del toro sicario benicio del toro sicario

    «Con una telefonata. Avevo portato Acab a Berlino e venni contattato da un'agenzia che mi domandò se mi interessasse essere rappresentato. Hanno iniziato a farmi leggere alcuni copioni, in alcuni casi scritti molto bene che però per una ragione o per l'altra non mi persuadevano. C'erano film molto importanti, ma mi pareva che non aggiungessero nulla a quanto era già stato fatto. Poi, a marzo del 2016, alla quarantesima sceneggiatura, mi è capitato tra le mani Soldado e mi sono detto: Questo lo faccio».

     

    Dove ha girato?

    «In Messico e in New Mexico portando i due personaggi antagonisti di Sicario, Brolin e Del Toro, in un contesto e in un racconto completamente diversi».

     

    Aver rifiutato film così importanti non le ha provocato conseguenze?

    «Quando ho deciso di fare la seconda serie di Gomorra rifiutando un progetto enorme erano sconcertati: Non vieni a Hollywood per girare una serie italiana?. Non volevano crederci».

     

    Ha avuto ragione lei, ma la terza serie non ha voluto girarla.

    nigro,giallini, favino in ACAB nigro,giallini, favino in ACAB

    «Penso, ma è un'idea mia, che fisiologicamente due stagioni siano il tempo perfetto per sviluppare un racconto. Ora sto lavorando su Zero, zero, zero di Saviano, dovrebbero essere 8 puntate per la tv e sull'adattamento in 6 episodi di Colt, un soggetto mai realizzato di Sergio Leone. Gomorra è stata un'esperienza incredibile, ma non si ripeterà».

     

    Cos'altro non si ripete?

    «Una certa ingenua smania della giovinezza per i rudimenti della tecnica. All'inizio vuoi dominare i movimenti di macchina, capire come si mettono le luci, mettere a fuoco l'immagine».

     

    Dopo?

    Acab - il libro di Carlo Bonini Acab - il libro di Carlo Bonini

    «Capisci che queste cose non sono altro che strumenti utili a mettere al centro di tutto l'idea e il racconto. Conta solo quello».

     

    Si sente ormai americano?

    «Non ho mai pensato di trasferirmi perché mi piace mantenere una specificità italiana e perché credo che alla base della scelta degli americani ci sia proprio l'esotismo e il desiderio di uno sguardo diverso. Sa dove ho montato il film?».

     

    A Los Angeles?

    «A Roma, nel quartiere Delle Vittorie. Quando ho detto ai committenti che volevo passare le 10 settimane del director's cut in Italia non ci volevano credere: Come hai detto, scusa?».

     

    Dove presenterà il film?

    «Non lo so, saremo pronti ad agosto e usciremo a ottobre».

     

    Lo porterebbe a un Festival, a Venezia, a Roma?

    «Ci andrei di corsa, perché no? Magari solo per togliermi la soddisfazione di tenere la conferenza stampa di un film americano in italiano, con i giornalisti stranieri in prima fila a chiedersi Cosa ha detto?. Abbiamo un cinema vivissimo e se ne sono accorti anche gli americani. Realizzare una serie in napoletano come Gomorra e venderla ovunque è una piccola rivoluzione».

     

    Si è mai chiesto perché questa occasione sia capitata a lei?

    «Forse proprio perché non l'ho mai cercata».

     

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    Cosa sono i soldi per lei?

    «Non lavoro per i soldi, ma sicuramente ti danno il lusso di poter scegliere quali progetti fare».

     

    All'inizio era diverso?

    «All'inizio sceglievo unicamente per i soldi. Era un vita un po' nomade, ho imparato a essere ordinato quando sono nati i miei figli».

     

    Era disordinato?

    «Non avevo neanche un armadio. Ogni tanto trovavo un maglione dietro una sedia e mi pareva di aver fatto 13: Anvedi, avevo sto golf e neanche lo sapevo. Dal caos mi hanno salvato tante cose, forse il cinema mi ha salvato di più».

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