Stefano Folli per la Repubblica
RENZI ASSEMBLEA PD
La lettera dei quaranta senatori del Pd in cui si chiede di lasciar lavorare il governo Gentiloni e di andare a votare nel 2018, alla scadenza della legislatura, è disarmante nella sua semplicità. Lo è perché definisce in poche frasi, senza dover aggiungere molto altro, lo stato d’animo prevalente nel partito di maggioranza, esausto per le nevrosi che prima hanno accompagnato la campagna referendaria e poi il dibattito “voto Sì/voto No” tutto interno al palazzo.
Fuori c’è l’Italia che ha ritrovato lo “spread” a 200 punti, che subisce le reprimende della Commissione europea e che ha urgenza di risistemare i conti pubblici. È evidente come l’incertezza politica sia uno dei fattori che inquietano i mercati. Fino al referendum del 4 dicembre era lecito pensare che il mondo finanziario auspicasse la vittoria del Sì come premessa di una maggiore stabilità politica.
gentiloni e renzi
Ma dopo l’affermazione del No e la nascita del nuovo esecutivo, il sentimento è cambiato. Ed è riassumibile così: meglio la stabilità offerta da Gentiloni, con il suo lavoro sobrio, che un ulteriore periodo di ansie in vista di elezioni anticipate che non sono comunque dietro l’angolo, a meno di strappi e altre lacerazioni.
È un ragionamento fin troppo ovvio nell’anno in cui l’Europa è già sottoposta alla tensione del voto in Olanda, fra poche settimane, poi in Francia e infine in Germania. Un crescendo carico di incognite, per cui nessuno a Bruxelles e nelle cancellerie auspica che alla triade si aggiunga l’Italia, il cui appuntamento con le urne è già previsto nel febbraio del 2018, ossia dopodomani. Sotto tale aspetto, i quaranta senatori danno voce, forse in modo inconsapevole, a uno stato d’animo diffuso in patria come all’estero.
renzi nella sede pd del nazareno
Se le cose stanno così, e se la questione voto anticipato è in realtà ormai risolta da una decina di giorni, dove nasce il nervosismo da cui è dominato il Pd? L’origine è probabilmente duplice. Da un lato esiste un problema di potere al vertice del partito, dopo il passo falso referendario. Dall’altro c’è da ridefinire un’identità con nuove idee e una visione del paese di cui oggi si colgono solo fragili indizi. Rispetto a questi due problemi, la legge elettorale è lo strumento intorno al quale si sta giocando una partita politica all’interno di un partito in crisi. La soluzione tecnica verrà quando sarà maturo lo sbocco politico.
FRANCESCHINI 1
Stiamo assistendo, in altre parole, alla fine del partito personale a cui Renzi aveva affidato le sue fortune. Il Pd come mera piattaforma per l’affermarsi di una “leadership” abbastanza forte da saltare il rapporto con i quadri e, se si vuole, la “nomenclatura” interna trasformata in notabilato (poltrone e ministeri, ma senza reale incidenza). Il leader entrava in relazione diretta e carismatica con la base, anzi con gli elettori di un mondo trasversale, al di là delle vecchie distinzioni fra destra e sinistra.
BERSANI D'ALEMA
Questo progetto aveva bisogno di continui successi di opinione per non incepparsi, ma il referendum è stato proprio l’incaglio fatale. Il riassetto di potere è cominciato da lì e proseguirà implacabile nei prossimi tempi. Il che non significa che Franceschini, Orlando e una parte dei bersaniani siano dei congiurati decisi a provocare al più presto una crisi della segreteria.
Al contrario, tenderanno a stringere via via Renzi in un angolo, sottraendogli consensi e le armi del potere. E non sarà impresa facile. Perché Renzi ha ancora qualche asso nella manica, a cominciare da una capacità mediatica e comunicativa superiore a quella dei suoi avversari. Non è bastata per costruire il partito personale, ma è sufficiente forse per conservare la maggioranza nel partito. O per meglio negoziare un compromesso con Franceschini e gli altri.
qrn63 marco minniti
In ogni caso c’è un congresso da convocare, come dice ora anche Bersani. Un congresso che richiede una lunga stagione preparatoria. All’incirca un semestre: si comincia a giugno per tenerlo ai primi di dicembre, secondo le regole dello statuto. Sei mesi in cui, appunto, Paolo Gentiloni dovrà lavorare tranquillo; in cui Minniti e Calenda, ciascuno nel proprio campo, avranno la possibilità di ottenere qualche risultato, facendo dimenticare l’era renziana; e in cui Padoan dovrà dare risposte concrete e non retoriche all’Europa.
CARLO CALENDA
Renzi ha ancora un futuro davanti a sé, purché rinunci a credere che gli basti fingere di essere ancora quello delle “slide” e degli 80 euro. Quella stagione è finita per sempre e con essa un certo Pd.