Reportage di Camilla Alibrandi per Dagospia
Pierluigi Panza per il “Corriere della Sera”
KATHARINA FRITSCH BIENNALE 2022
Per comprende la Biennale d'Arte di Venezia che si inaugura sabato 23 aprile (fino al 27 novembre), curata da Cecilia Alemani, non prima donna ma prima italiana a rivestire questa posizione, si può ripartire dall'intervista a Pascal Bruckner pubblicata su «la Lettura» il 23 maggio dello scorso anno.
Negli anni Ottanta la filosofia post-strutturalista e decostruttivista dei vari Derrida, Foucault, Deleuze arrivò in California dove la compresero a modo loro: bisognava destrutturare la civiltà eurocentrica nata con l'Umanesimo e ripartire dando spazio a tutto ciò che non aveva avuto chance. Riempirono le università di gender studies, post colonial studies, wokeism e con questi temi hanno ri-colonizzato l'Europa. Tra ciò che non aveva avuto chance nella storia che ha forgiato l'Europa al vertice della catena culturale c'erano le donne artiste: poche, poco apprezzate, quasi assenti le nere o quelle dell'Est Europa o di aree periferiche del mondo.
latifa echakhch giardini svizzera
Ci voleva una italiana diventata americana e convertita a questo verbo, responsabile del programma di arte pubblica della High Line per portare in Italia una declinazione espositiva di questo processo.
I temi affrontati sono di fondamentale attualità. La mostra Il latte dei sogni , titolo preso da un libro di favole di Leonora Carrington (1917-2011), si interroga, infatti, su come sta cambiando la definizione di umano, quali sono le differenze che separano il vegetale, l'animale e l'umano, i generi, quali le nostre responsabilità nei confronti del pianeta e come sarebbe la vita senza di noi.
Solo che la curatrice ha scelto di far rispondere quasi esclusivamente ad artiste, meglio se nere o appartenenti a minoranze, o apolidi (nel catalogo si sottolinea, inoltre, che quasi nessuna artista vive dove è nata) accompagnando le loro opere con la riscoperta, sigillata in capsule del tempo, delle artiste («unite per sorellanze», Alemani) che non erano mai riuscite a salire sul palcoscenico della storia. Il fatto che per Benedetto Croce ogni storia sia «storia contemporanea», ovvero scritta dal presente guardando il passato, rende possibile la prospettiva scelta da Alemani per curare una mostra contemporanea con capsule del tempo ma, certamente, ne svela il volto militante.
nan goldin
La Mostra d'Arte si articola tra il Padiglione Centrale ai Giardini e l'Arsenale includendo 191 artiste e 22 artisti provenienti da 58 nazioni. Sono 26 le artiste/i italiane, 180 le prime partecipazioni nella Mostra Internazionale, 1.433 le opere e gli oggetti esposti, 80 le nuove produzioni. Le prime opere che colpiscono sono le mega-installazioni dell'afro-americana Simone Leigh che ha trasformato il Padiglione Usa ai Giardini (la curatrice, Eva Respini, è di padre italiano) in una capanna dominata da una matriarca dai seni cadenti e ci accoglie nella prima sala delle corderie dell'Arsenale con un gigantesco bronzo di una donna africana senza occhi.
cecilia alemani
Qui domina il principio di metamorfosi di generi e forme e ciò che coinvolge sono le installazioni site-specific e le grandi dimensioni: le genealogie di terracotta dell'argentino Gabriel Chaile, il macro «minimalismo» di Delcy Morales che trasforma le corderie in un terrapieno, una magniloquente scultura nera da muro della nata in Ucraina Louise Nevelson, le psicogiraffe di Raphaela Vogel (scuoiate e incatenate).
A tratti pare una mostra di quelli che un tempo si chiamavano Paesi in via di sviluppo, almeno sino al gran finale: l'ultimo video commovente di Diego Marcon e il giardino tropicale con figure apotropaiche di Precious Okoyomon dove saranno liberate anche delle farfalle (nel 1972, il gruppo belga Mass Moving liberò 10 mila farfalle, ma erano cavolaie, e «scheletrizzano» gli alberi). Di fianco delle Corderie c'è forse la più lunga installazione aerea su tubi della Biennale: è dell'italiana di Amsterdam Giulia Cenci, che lavora per rendere nuovamente visibile ciò che di sovrabbondante è trascorso.
aneta grzeszykowska
Ai Giardini, entrando nel Padiglione Centrale (fascista) smitizzato sormontandolo con dei pinguini ballerini, ci attende l'elefantessa matriarca di Katharina Fritsch proprio sotto la volta di Galileo Chini che, en passant , disegnò le scene della Turandot , l'opera lirica dove la figura femminile risulta odiosa.
Tra pupazzi e tele di denuncia al colonialismo sparsi dovunque, o la performance di Alexandra Pirici intitolata Encyclopedia of Relations , ci sono tre delle cinque capsule, che sono mostre storico-tematiche all'interno della magna esposizione. La prima, La culla della strega, è metodologicamente molto chiara: si recuperano artiste e riviste che avevano sostenuto il valore culturale della grande madre Africa durante il colonialismo (la rivista «Tropiques», i quadri di Laura Wheeler Waring) e artiste o opere di area surrealista antesignane della rivoluzione gender come la stessa Carrington o una tela di Leonor Fini nella quale la donna non è femme fatale bensì osserva un uomo molto androgino nudo a letto.
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Sempre ai Giardini lo spazio dell'esedra è diventato Piazza Ucraina, con pilastri bruciati e al centro i sacchi di sabbia come a coprire un monumento. La Biennale ha sempre denunciato i conflitti: nel 1970 il Padiglione della Cecoslovacchia recava scritto: «Chiuso per motivi tecnici. Informazioni al padiglione sovietico». Quest' anno il Padiglione russo, invece, non c'è e non c'è bisogno di chiedere spiegazioni. L'arte non è fuori dal mondo. Questa Biennale è costata circa 18 milioni e deve essere stato un lavoro massacrante distribuire così tante opere e di queste dimensioni provenienti da tutto il mondo. Offre una chance di visibilità a chi non la aveva avuta, mostra che uomo e macchina devono tentare di coesistere e ignora l'artista bianco.
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