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Giuseppe Videtti per “la Repubblica”
Quando si racconta degli artisti si ricomincia ciclicamente a recitare il medesimo rosario. Per forza, le storie si assomigliano. Caravaggio e Jackson Pollock, Jean Genet e Pasolini, Rimbaud e Cajkovskij, Nijinsky e Basquiat, Charlie Parker e Chet Baker, Jim Morrison e Kurt Cobain, Heath Ledger e Philip Seymour Hoffman. Solitudini, tormenti, dipendenze, eccessi, stravaganze. Pazzia, non di rado. Ordinario, conforme, convenzionale, normale: li pronunci e hai già sotterrato l’arte e l’artista.
COVER LIBRO SOUNES
Se lo scrittore inglese Howard Sounes, autore fra l’altro di una biografia di Bob Dylan, voleva resuscitare Lou Reed (1942-2013) con la pubblicazione del già chiacchieratissimo Notes from the velvet underground – The life of Lou Reed (Ed. Doubleday, 416 pag.) ha sbagliato mira, lo ha fucilato da morto.
L’assunto è già fastidioso se confrontato con l’arcinota esistenza di un ragazzo trattato con l’elettroshock, di un giovane artista nato alla corte di Andy Warhol e ripescato dall’oblio da Bowie nell’era di Ziggy Stardust, del genio maturo che ha dato all’underground newyorkese l’energia e la dignità di uscire dalle cantine e dai garage per accedere ai più grandi teatri del mondo:
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«Un uomo complicato, un artista strano, spesso litigioso, decisamente sgradevole. Era un bisessuale che si è sposato tre volte, un alcolista e un drogato che si atteggiava a duro anche se in privato affrontava una strenua lotta con i suoi problemi mentali.
Era anche un astuto e sensibile compositore i cui argomenti spaziavano dalle droghe e dal sesso estremo a tenere ballate come Perfect day e Pale blue eyes » - con quei due «anche» che fanno a pugni non solo con la storia dell’artista e con la sua essenza ma soprattutto con il buon senso di una penna che si è già occupata ripetutamente di Bukowski e più recentemente di Amy Winehouse.
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Sounes pretende di aver compilato «il ritratto vivido di un artista geniale e tormentato», e già all’inizio, narrando le bizze del giovane Lou al suo primo concerto upstate New York (1963) con la band del college, “LA and The Eldorados”, conclude: «L’integrità è il marchio del vero artista». Eppure in ogni pagina c’è la pretesa della scoperta, in ogni intervista lo stupore dello scoop, in ogni stranezza scovata in cinquant’anni di carriera la meraviglia dello scandalo.
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Qualcuno c’è cascato e ha scritto: “Chi era il vero Lou Reed?”. Esattamente colui che conosciamo attraverso le cronache. E le canzoni, che parlano ancora più forte: Heroin, Venus in furs, Waiting for my man, Walk on the wild side: non proprio amore-tesoro- salsiccia-e-pomodoro.
C’è bisogno di ribadirlo? Anche un bisessuale misogino può esaltare la sua vita coniugale etero, se la donna che ha accanto si chiama Laurie Anderson. Anche un (ex) eroinomane può gioire di una limpida, cristallina, perfetta giornata di sole a Central Park o allo zoo.
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Anche un promiscuo sessuomane sadomaso può indugiare malinconicamente su un paio di occhi blu. Non è insolito che i più fradici tra di beoni e i più incalliti tra i tossicodipendenti, in territorio rock ma non solo, quando alticci o in preda alle anfetamine se ne escano con diffamazioni razziali, maltrattamenti ai danni di un fan, comportamenti inqualificabili durante le interviste.
Il mostro dipinto da Sounes, era un mistero solo per l’autore, giacché chiunque di noi giornalisti abbia avuto il privilegio e il sangue freddo di affrontarlo (l’aggressione a Lester Bangs è leggendaria) ha dovuto fare i conti con la diffidenza, la rabbia sorda, le aggressioni verbali e persino qualche umiliante apprezzamento.
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Una volta, seconda metà degli anni Settanta, alla presentazione di un disco di David Bowie a Berlino, con un collega inglese entriamo nel bagno degli uomini. Lou Reed in persona in piedi nel pisciatoio. Ci blocchiamo inebetiti, la reazione naturale di due fan sui venticinque anni. Lui, urinando nella nostra direzione, blatera: «Toglietevi dalle palle!».
Nessuno di noi due si è mai sognato di scriverlo. Sono queste le “mostruosità” che Sounes racconta. Raccolte dove? Da chi? A parlare sono molti (ex) discografici e (ex) impresari e (ex) fidanzate e (ex) giornalisti insultati. E persino qualche celebrity che parla per sentito dire, solo perché negli anni d’oro partecipò a questo o a quel concerto.
Lou Reed li odiava - ci odiava perché li considerava mainstream, un percorso che aveva sempre trovato sbarrato. Lui era fuori, da tutto, sempre. Nell’anno di Woodstock, i Velvet Underground, uno dei dieci gruppi più influenti della storia del rock, rispondevano alle visioni lisergiche con lo speed - e restarono ai margini.
All’epoca di Transformer, il glam era ancora troppo underground per le classifiche. Quando il punk emetteva i primi vagiti, Lou Reed, deriso, aveva già fatto tabula rasa con Metal machine music. In piena febbre del sabato sera, continuava a ballare da solo pubblicando album dolorosi e dissonanti come Coney Island Baby e The bells.
Inaccurata anche la descrizione del concerto romano del febbraio 1975, una serata che al Palazzo dello Sport di Roma non finì in lacrime ma in lacrimogeni. Nella conferenza stampa del pomeriggio, si racconta, Lou Reed avrebbe risposto a un cronista: «I came because I want to fuck the Pope».
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Ammesso che corrisponda a verità, la domanda, non meno scandalosa, era: «Perché è venuto a suonare a Roma»? Come fossimo a Timbuktu. Comunque siano andate le cose, il Vaticano è stato più indulgente di Sounes: Lou Reed cantò per Giovanni Paolo II al concertone per il Giubileo del 2000.
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