Alfio Sciacca per il “Corriere della Sera” - Estratti
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Come direbbe Alfredo-Noiret, Totò Cascio, il bambino di «Nuovo Cinema Paradiso», si è fatto fottere dalla nostalgia.
È rimasto in Sicilia.
«Macché! Mi sono fatto fottere dalla malattia. Sono stato costretto a restare. Anche se posso dire che non è stato un male. Ormai la Sicilia è un set a cielo aperto. Anche qui si può fare del buon cinema».
Nel frattempo cos’ha fatto?
«Mio padre ha investito i miei guadagni e abbiamo aperto due supermercati, a Palazzo Adriano e a Chiusa Sclafani. Uno lo gestisco io».
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Per quanto si è fermato?
«Ho lavorato fino al 2001 e mi sono risvegliato nel 2015. Quando ho capito che dovevo accettare la malattia».
Bloccato per 15 anni.
«La retinite pigmentosa mi ha reso quasi cieco e mi sono rinchiuso nel mio guscio».
Come Noiret nel film.
«E come lui riuscivo a vedere con gli occhi del cuore. Per me esisteva solo la notte: l’unico momento della giornata in cui riuscivo a vedere benissimo. Sognavo di giocare a calcio, la mia grande passione. La notte avevo un’altra vita».
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Anni duri.
«Molto. Dalla gloria è arrivata la prova. All’inizio la prova non l’ho accettata. Speravo nella scienza, nei microchip, nei miracoli. Intanto gli anni passavano. Alla fine ho capito che l’unico rimedio era accettare. E quando ho accettato e condiviso il problema è cambiato tutto».
Nessuno la cercava in quegli anni?
«Tantissimi. Mi chiamavano in tv e per il cinema. Ero io che rifiutavo ogni invito».
Chi le è stato vicino?
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«Del mondo del cinema nessuno, ma per colpa mia. Ero io a nascondermi. Per farlo inventavo continuamente scuse. I primi anni nessuno sapeva della malattia. Divenne una cosa pubblica dopo un’intervista a La Stampa . Fu uno spartiacque. Dire pubblicamente il nome della mia malattia fu liberatorio. Da quel momento è cambiato tutto».
Quanto ha influito l’incontro con Bocelli?
«Per anni ho vissuto la malattia come una vergogna. Lui mi ha insegnato un concetto semplice: la disabilità non è un disonore. Poi ha fatto pure la prefazione al mio libro».
Da bambino prodigio a persona qualunque, e in più con un grave malattia.
«Mi provocava paura, rabbia, angoscia, vergogna. Ma rifarei tutto. Avevo bisogno di tempo: accettare dall’oggi al domani non era semplice».
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Conosceva Tornatore?
«No. All’inizio mi sembrò uno molto severo, rigoroso».
Che cosa le diceva?
«Mi faceva chiacchierare. Voleva che parlassi. Mi chiese se ero mai stato al cinema. Risposi: “No, a Palazzo Adriano non ce ne sono”. E ancora: “Cos’è il cinema secondo te?” E io risposi: “Sarà forse una grande televisione?!”. Da lì ha capito. Gli piaceva il mio modo di parlare».
Venne quindi selezionato?
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«No, non mi disse nulla. Dopo qualche settimana, venni convocato. Andai con mio padre in un hotel di Cefalù. In ballo eravamo rimasti in due. Quella volta ci fece recitare una battuta del film. Era la scena delle pellicole, quando Totò dice: “Alfredo, me le posso prendere?”».
E l’altro ragazzino?
«Non so chi fosse, forse mi ha odiato per anni. Ma tempo dopo Tornatore mi disse che anche prima di quell’incontro aveva già scelto me».
Cosa ricorda delle riprese?
«Tutto: gli attori e soprattutto la troupe. In gran parte erano romani. C’era chi mi insegnava il romanesco e i cori da stadio. Mi piaceva come parlavano e io ero la mascotte del gruppo».
E i grandi, come Noiret?
«Non comprendevo l’importanza di chi avevo accanto: Noiret, Gullotta, Enzo Cannavale, Leopoldo Trieste».
Com’erano sul set?
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«Scherzavano sempre. Mi facevano raccontare le barzellette. Ma più che le barzellette gli piaceva il modo in cui le raccontavo. Noiret parlava francese e si faceva tradurre».
Il ricordo più bello?
«Uno in particolare. A me ha sempre dato fastidio il fumo. Noiret fumava il sigaro. Un giorno, nella pausa, eravamo seduti poco distanti e io ero imbronciato. Quella puzza non la sopportavo. Lui ha visto la mia faccia e ha capito. Ha subito smesso di fumare. Qualche giorno dopo la moglie disse a mia madre: “Mio marito non ha mai rinunciato al suo sigaro per nessuno. Totò è stato l’unico che è riuscito a farlo smettere di fumare”».
Poi arrivò anche l’Oscar.
«Non andai per la consegna delle statuette, ma qualche settimana prima per le nomination. Avevo 10 anni e non avevo idea. All’epoca mi emozionava di più entrare in campo al Cibali o all’Olimpico. Ero pazzo per il calcio e non comprendevo cosa volesse dire l’Oscar e Hollywood. Da piccolo sognavo di fare il calciatore, non certo l’attore. Quindi della notorietà mi piaceva soprattutto il fatto che mi consentiva di poter incontrare calciatori come Baggio, Baresi o Schillaci».
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Oggi cosa fa Totò Cascio?
«Attualmente sono ancora in giro con il mio libro. E, soprattutto, sono tornato al cinema. Ho già partecipato a due film, di Aurelio Grimaldi e Maurizio Trapani e ho tanti progetti. Sono felicissimo di essermi ripreso la mia vita».
La malattia è un ostacolo?
«In un primo momento era questa la mia preoccupazione, poi un attore con il mio stesso problema mi disse: “Totò, il regista si adeguerà”».
Come le consigliava Alfredo nel film sta amando quel che fa come amava la cabina di Nuovo Cinema Paradiso?
«Per me è una filosofia di vita. Se non ami quello che stai facendo non sarai mai soddisfatto. Oggi sono grato alla vita per quello che mi ha dato e non ho più tempo per lamentarmi per ciò che non ho più.
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La vita è straordinariamente imprevedibile ed è bella proprio per questo».
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