Gigi Garanzini per “La Stampa”
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Minuto di silenzio per Tarcisio Burgnich, la Roccia dell' Inter euro-mondiale e della prima grand' Italia del dopoguerra. Sarti-Burgnich-Facchetti la filastrocca della prima, Albertosi-Burgnich-Facchetti della seconda: giusto una generazione prima di Zoff-Gentile-Cabrini, anche se il vecchio Dino, friulano doc a sua volta, c' era già ai tempi dell' Europeo '68 e chissà perché, a pensarci, a Mexico '70 dovette ri-cedere il passo al meno giovane Albertosi. Era il tempo delle staffette, evidentemente, che culminò in quella mai abbastanza esecrata tra Mazzola e Rivera.
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La Roccia di allora pesava 81 chili per 1,75: nella difesa dell' Inter di Conte tra Skriniar, De Vrji, Bastoni e magari Ranocchia sarebbe sembrato un riformato alla visita di leva. Perché le stazze di oggi sono tutt' altre e basta guardare una foto di gruppo dei messicani per provare un brivido di tenerezza. Ma il calcio era già allora uno sport di contatto: e contro la Roccia anche gli attaccanti più potenti e coraggiosi dell' epoca, a cominciare da Gigi Riva, molto semplicemente rimbalzavano. Per loro fortuna Burgnich era un marcatore implacabile ma leale, che solo una volta si arrabbiò seriamente: un pomeriggio a San Siro in cui una gomitata proprio di Riva gli fece saltare due denti. Cercò e trovò il modo di restituire, avrebbe raccontato anni dopo: e una volta pareggiati i conti, gli tese la mano.
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Era giusto per Riva la punizione che Rivera battè dalla trequarti all' Azteca, subito dopo la frittata di Poletti che aveva regalato a Gerd Muller il pallone del 2-1. Ma finì sulla testa di un tedesco che la respinse corta e male: e lì, nel cuore dell' area avversaria dove di norma si spingeva solo mostrando il passaporto, fu la Roccia a controllarla con tutta calma e a spedirla in rete di sinistro. E fu quello il segnale che la maionese ormai era impazzita, e poteva davvero succedere di tutto.
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L' altro fotogramma di quel giugno del '70 è di quattro giorni più tardi, al minuto 18 della finale col Brasile: ed è di tutt' altro segno. Sul cross di Rivelino, Burgnich è in ritardo e potendo staccare in solitudine il colpo di testa di Pelè è una sentenza. Si seppe poi, e qualcosa si intuisce rivedendo le immagini, che mentre Tostao stava per battere la rimessa che innescò la parabola di Rivelino, arrivò dalla panchina l' ordine di cambiare le marcature perché sino a lì su Pelè, partito arretrato, c' era stato Bertini: abituato a far sentire all' avversario il contatto fisico sullo stacco, la Roccia si trovò nella terra di nessuno.
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E annaspò invano nell' aria. Qualche giorno prima, con un colpo di testa praticamente identico, 'O Rey aveva costretto Gordon Banks all' allora parata del secolo, che tale è rimasta a distanza di oltre cinquant' anni. Ma a Burgnich, di professione marcatore a uomo, quel cruccio era rimasto dentro: perché nella partita più importante di una pur leggendaria carriera, contro il giocatore più forte del mondo, non era riuscito a essere la Roccia di sempre.
Si era perso l' uomo, sia pur per una scelta non sua. Contravvenendo al primo comandamento che aveva imparato a memoria nelle giovanili dell' Udinese. Con un occhio e mezzo guarda sempre il tuo avversario: con l' altro mezzo il pallone.
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Abiurò soltanto in tarda età, quando dopo l' epopea interista andò a fare il libero al Napoli di Vinicio che sperimentava la zona (spuria, visto che contemplava per l' appunto il libero). E arrivò a un passo da un altro scudetto, dopo tutti quelli vinti con l' Inter, più le coppe dei Campioni e le Intercontinentali. E sì che in gioventù era stato bocciato a un provino del Catania, che gli aveva preferito un altro friulano a nome Bruno Pizzul. Ciao Tarci, buonanotte Cipe. Così si salutavano in ritiro lui e Facchetti, spegnendo la luce alle canoniche 22,30. E raccontandolo, chiosava: tra Inter e Nazionale ho dormito più con lui che con mia moglie. Addio Roccia.
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