Giuseppe Sarcina per il “Corriere della Sera”
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«Io sono di New York e i newyorkesi sanno riconoscere un imbroglione quando ne vedono uno». Michael Bloomberg è stato sindaco della Grande Mela per dodici anni, dal 2002 al 2013 e nei mesi scorsi più volte ha pensato di candidarsi alle presidenziali, proprio per tagliare la strada a Donald Trump.
Alla fine ha rinunciato, sulla base di un calcolo pragmatico ed ora eccolo qui a Filadelfia a schierarsi «imperativamente» con Hillary. Bloomberg, 74 anni, editore e uomo d' affari con molteplici proprietà al sole, è la figura che al gruppo dirigente democratico oggi sembra la più adatta per esorcizzare la sensazione di insicurezza, una sottile paura, un sinistro presentimento che percorre la convention.
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E cioè che alla fine Trump possa davvero convincere gli elettori, presentandosi come un businessman di successo, dotato di fiuto istintivo per le scelte più vantaggiose, capace di negoziare anche con l' interlocutore più difficile.
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Dal palco di Filadelfia, Bloomberg ha completato l' opera di demolizione cominciata da altri oratori, come il vice presidente, Joe Biden, e il sindaco di New York Bill de Blasio: «Lungo la sua carriera Trump si è lasciato dietro una ben documentata serie di bancarotte, migliaia di cause, azionisti arrabbiati e imprenditori che sono stati ingannati, consumatori delusi. Trump dice che vuole gestire la nazione, come gestisce i suoi affari. Dio ci aiuti».
Trump ha fatto soldi comprando e vendendo palazzi: in definitiva la sua essenza è quella del broker, del mediatore. Le bancarotte di cui parla Bloomberg sono quattro: negli Stati Uniti sono disciplinate dal «Chapter 11», l' equivalente della nostra amministrazione controllata. Il caso più clamoroso risale al 1987, con il fallimento del Taj Mahal, uno dei tre casinò di Atlantic City: un progetto semplicemente megalomane, finanziato con titoli spazzatura e travolto dalla crisi di Wall Street del 1987.
Sono gli anni della finanza corsara, degli speculatori. Il tycoon newyorchese partiva in vantaggio rispetto a tutti gli altri, perché, come gli ha ricordato l' altro ieri Bloomberg, ha cominciato con «un assegno da un milione di dollari del padre».
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Il suo impero si fonda sulla ricetta antica dei palazzinari di tutto il mondo: comprare terreni a basso prezzo, costruire edifici di lusso, frazionarli e rivenderli. Se va bene sono miliardi, altrimenti c' è il tribunale fallimentare.
Ma la contestazione precisa, e quindi insidiosa di Bloomberg, è un' altra: chi ha lavorato nei cantieri di Trump? «Quegli stessi immigrati clandestini, pagati con paghe irrisorie, che ora vorrebbe cacciare, perché non hanno i documenti in ordine». E ancora: «Ha ingannato i subappaltatori e i fornitori».
È un attacco rivolto all' essenza del sistema Trump, alla sua credibilità, alla sua compatibilità con i valori base dell' America, così come li ha ricordati Barack Obama: onestà, affidabilità.
Ecco perché Bloomberg e gli altri insistono anche su imprese oggettivamente marginali o periferiche dell' impero.
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Per esempio la Trump University, fondata nel 2005 a New York e sommersa prima da critiche per le sue scadenti performance accademiche e poi da un' inchiesta condotta dal procuratore generale di New York, nonché da due class action, le cause collettive intentate dagli studenti.
In sintesi Trump è accusato di essere un imbonitore: la sua «Università» offriva corsi di laurea senza neanche avere l' autorizzazione per farlo. Gli studenti pagavano rette da 35 mila dollari per ritrovarsi davanti professori improbabili e con titoli di studio sostanzialmente senza valore.
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Il 10 marzo scorso, durante una conferenza nel suo resort di Palm Beach in Florida, il «front runner» repubblicano si è presentato con una serie di prodotti «made in Trump»: vino, bistecche, acqua minerale, vodka. Soltanto il vino esiste ancora, tutto il resto faceva parte di attività cedute, liquidate o, semplicemente, fallite.
Negli Stati Uniti, il Paese delle comunità cristiane protestanti, la ricchezza non è considerata una realtà di cui vergognarsi. Ma sull' etica non si fanno sconti.
A Filadelfia, giusto o sbagliato che sia, Michael Bloomberg si è contrapposto a Donald Trump: il miliardario onesto e l' imbroglione.
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